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L’approssimarsi, annunciato dal diretto interessato, delle dimissioni di Giorgio Napolitano da capo dello Stato e, dunque, dell’indizione delle votazioni per l’elezione del tredicesimo presidente della repubblica italiana, costituisce l’occasione, per l’intero schieramento politico-parlamentare, per interrogarsi sulla responsabilità che avranno tutti i convocandi «grandi elettori» (deputati, senatori e rappresentanti regionali) nello scegliere un nome non di parte e che veramente rappresenti l’unità nazionale e non una maggioranza casuale numerica.

Verosimilmente, quell’appuntamento sarà l’ultimo che vedrà uniti oltre mille «grandi elettori» nella storia nazionale; se non altro a causa di tre riforme in discussione da tempo: la diminuzione del numero dei parlamentari, a cominciare dai deputati; il ridimensionamento se non la soppressione del senato e dei senatori a vita, sovente decisivi nei voti di fiducia; la revisione delle modalità selettive dei rappresentanti regionali comunque, e sicuramente in caso di riforma strutturale, se non di abolizione, del senato.

Ciò implica che, una volta eletto, il 13° presidente potrebbe non essere più un capo dello Stato interventista e presidenzialista che assegni i compiti e le pagelle al parlamento e lo obblighi a modificare il proprio agire legislativo. Oppure potrà emergere un presidente della repubblica che non abbia alcuna somiglianza con alcuno dei predecessori e introduca un modo di svolgere il suo ruolo in maniera davvero superpartes, cioè cercando anche di essere ed apparire come un punto generale di equilibrio nazionale: che insomma accolga e garantisca permanentemente le pulsioni culturali e politiche anche dei rappresentanti del Paese rimasti soccombenti nella battaglia presidenziale. O, ancora, potrebbe essere eletto un capo dello Stato del tutto innovatore che muti la repubblica in presidenziale e bipolare (se non addirittura bipartita).

In ogni caso pare improbabile che possa risultare eletto un presidente della Repubblica che, come primo suo atto, proceda allo scioglimento delle camere, un provvedimento che, ora come ora, può annoverarsi fra gli interessi politici di un premier che stenta a governare un parlamento oggettivamente instabile e riottoso alla politica riformatrice vagheggiata dall’esecutivo che presiede. Così come è più probabile che il nuovo inquilino del Quirinale, considerate le difficoltà oggettive che stanno contrassegnando l’esperienza di una XVII legislatura inconcludente, decida autonomamente la liquidazione di tale esperienza. Anche per tenere concretamente conto di quella oltre metà di italiani che non si recano più alle urne; non per disaffezione dalla politica, ma per una non condivisione della rissa continua fra una miriade di formazioni nelle quali il segno distintivo sia il personalismo, e non una visione nazionale delle difficoltà reali del Paese.

Il compito cui saranno chiamati prossimamente i «grandi elettori» sarà pertanto ancora più delicato che nel passato. E ognuno di essi sarà chiamato a scegliere un capo dello Stato che potrebbe, immediatamente dopo, mandarli tutti a casa senza pietà, appellandosi ai cittadini perché indichino in quale direzione indirizzare la politica repubblicana. Essendo i partiti in campo palesemente inadeguati dinanzi ad un crescendo di difficoltà economiche dalle quali non si può obbiettivamente uscire fuori lasciando in vita nomenclature costituitesi in altre fasi storiche o emerse nelle consultazioni del febbraio 2013, in funzione antipolitica, meramente protestatrice e settaria e, oltretutto, pretenziosa e improduttiva.

Enorme è, dunque, l’assennatezza di cui dovranno farsi carico i «grandi elettori» nella consapevolezza di poter eleggere un loro giustiziere. E qui si misurerà il senso civico e dello Stato di chi sarà chiamato a compiere una scelta anche contro il proprio interesse personale.

Già circolano nomi e cognomi di parecchi candidati alla successione di Napolitano. Taluni sono accompagnati da motivazioni valide. Altri sono patetiche rimasticature dei soliti noti e di faziosi vendicativi e mai domi. Ma gli stessi ambienti che avanzano rose di candidature astrattamente presumibili avrebbero il dovere civile di non prescindere dalle prove fornite dai pretendenti e dai ruoli da essi svolti nel passato in maniera non brillante e poco convincente o più volte bocciati dal parlamento. Si può, ad esempio, avere o meno una grande stima personale per il presidente dimissionario, ma come successore non si potrà non indirizzarsi verso un candidato che non abbia le caratteristiche politiche di parte dell’uscente e men che mai scegliendo un candidato di fronte opposto, caratterizzatosi per estremismo o insipienza. Insomma, la scelta del successore implica riflessioni attente anche da parte di chi non è chiamato ad esprimere un voto, ma da chi abbia funzioni di orientamento, come i media, dai quali ci si dovrebbe attendere pari senso di responsabilità di quello dovuto dagli stessi «grandi elettori».

Segnalo, in proposito, l’introduzione recentissima nel lessico politico del neologismo inquirinabile, col quale si indica un pretendente all’incarico presidenziale che sia spudoratamente un giocatore di parte; o un uomo già negativamente sperimentato nei più vicini lustri alla guida delle maggiori istituzioni; o un candidato per tutte le stagioni; o un outsider proveniente da mondi non politici e che abbia dato prove fallimentari in altri campi; ovvero mezze calzette che, per la loro inconsistenza, sarebbe opportuno scompa-rissero dal novero dei candidati indicati anche per scherzo.

Sottolineo quest’ultimo aspetto, perché, a giudicare anche da ciò che si sente dichiarare o sollecitare o proporre allegramente sui media, gli inquirinabili paiono più numerosi e sfacciati dei quirinabili: che dovrebbero contarsi sulle dita di una sola mano, a voler essere seri.

 

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