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Poco più di un mese fa, alla vigilia del tredicesimo anniversario dell’attentato alle Torri gemelle, il Presidente Obama ha parlato alla nazione e ha chiesto alla comunità internazionale di promuovere una coalizione per lottare contro l’Islamic State, una nuova minaccia globale per le sue potenzialità espansive e destabilizzanti.

Il terrorismo è sovversione sistematica di valori assoluti, di tradizioni religiose, di appartenenze culturali, di diritti e di libertà. Terrorismo e antiterrorismo sono entrati prepotentemente nella vita degli Stati, delle società e degli individui dell’intero pianeta, modificando il concetto stesso di sicurezza e di sovranità. In più, il terrorismo internazionale di matrice religiosa, nella sua versione più evoluta e aggressiva, veste anche abiti europei, muovendosi, talvolta, insospettabile tra insospettabili e lanciando una sfida senza precedenti alla sicurezza globale.

Come già specificato dal presidente degli Stati Uniti Barak Obama il problema dell’Is deve essere affrontato con realismo, senza cadere nella trappola dello scontro di civiltà: “l’Is non è l’Islam, ma una mera organizzazione terrorista” ha pronunciato in suo recente discorso. Come dimostrano anche i dati e le immagini provenienti dall’Iraq e dalla Siria, lo Stato islamico sta colpendo oltre alle minoranze cristiane e yazidi, soprattutto i musulmani. Il consenso al Califfato giunge da altre organizzazioni criminali, restando quindi nell’illegalità. Tuttavia, in giugno gli stessi ribelli siriani, comprese alcune fazioni dichiaratamente islamiste – come Islamic Front –, hanno bollato la creazione del Califfato come un’azione “ridicola, nulla e priva di validità”, opinione sposata anche dai Paesi della Lega Araba. E d’altro canto, in Iraq si è assistito ad una campagna di solidarietà da parte dei musulmani nei confronti delle minoranze cacciate dalla città di Mosul e dai villaggi della piana di Ninive.

Le “primavere arabe” e la crisi in Siria hanno mostrato la facilità con cui il terrorismo riesce a mobilitare, radicalizzare e arruolare i giovani. Rispetto a questo fenomeno incontriamo la difficoltà di intervenire nella chiusura di siti online registrati presso Paesi extra europei. E’, quindi, alla luce dei vincoli tecnologici e normativi delle giurisdizioni nazionali che si comprende come la cooperazione internazionale tra USA ed Europa assuma il rilievo di un fattore chiave per l’efficacia della prevenzione.

Europa e Stati Uniti sono sostanzialmente d’accordo non solo sull’approccio generale – come mi sembra di avere documentato – ma anche rispetto alla strategia generale di contrasto, che dovrà fondarsi sempre più sull’integrazione di soft power e hard power, cioè su di un mix oculato di diplomazia, intelligence e law enforcement con lo strumento militare, con una probabile, progressiva, prevalenza del primo sul secondo.

E la ragione è duplice: in primo luogo, benché io trovi del tutto legittima l’aspirazione degli Stati Uniti a una maggiore assunzione di responsabilità da parte europea in Medio Oriente, non possiamo ignorare che, allo stato, un apporto militare significativo dell’Europa in quanto tale è molto di là da venire. Al contrario, un contributo europeo declinato in termini di soft power esiste già oggi, è rodato e fruttuoso. Di conseguenza, è logico che Bruxelles e Washington concordino sull’obiettivo di rafforzarlo, adattandolo alle situazioni sul terreno; in secondo luogo, se è certo che il soft power costa meno, non è detto che i risultati derivanti dal buon uso dei suoi strumenti siano inferiori a quelli derivanti dall’impiego dello strumento militare. Anche per tale motivo, quindi, in un’ottica di analisi costi-benefici, credo che nel prossimo futuro la collaborazione Europa – Stati Uniti in Medio Oriente abbia più probabilità di svilupparsi e produrre risultati positivi nel campo delle politiche di sicurezza di cui si occupano i Ministri dell’Interno che nel settore, pur essenziale, della Difesa.

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