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La corsa al Quirinale, come da tempo si chiama comunemente la gara per la successione al presidente della Repubblica, rischia questa volta di trasformarsi in una giostra dove si sale e si scende comicamente per la goffaggine dei partecipanti, politici o giornalisti di lunga esperienza e di presunta autorevolezza che siano. Dai quali sarebbe lecito attendersi, francamente, almeno la conoscenza delle poche regole e dei precedenti, cui pure si richiamano per auspicare questa o quell’altra soluzione, questo o quell’altro modello.

A dispetto, per esempio, dell’età minima di 50 anni prescritta dalla Costituzione per essere eletti al vertice dello Stato, uno dei più navigati opinionisti come Eugenio Scalfari, considerato particolarmente influente nel campo della sinistra ed ora persino oltre Tevere, caldeggia con bizzarra insistenza dalle colonne dell’Espresso e della Repubblica l’elezione di Enrico Letta. Che pure, potendo avere l’età giusta solo nell’estate del 2016, ha pubblicamente invitato alla desistenza il suo irriducibile sostenitore, convinto invece che a sbarrargli la strada sia solo l’ostilità dell’attuale presidente del Consiglio.

Matteo Renzi, per carità, si è sicuramente assunto l’anno scorso la responsabilità di scalzare troppo disinvoltamente Enrico Letta da Palazzo Chigi, appena dopo avergli smanettato l’invito elettronico a “stare sereno”, ma non può onestamente essere accusato di infierire sulla vittima. Che solo per ragioni anagrafiche risulterà impedito sulla strada del Quirinale addirittura fino al 2022, quando scadrà, salvo sorprese, riforme o incidenti, il mandato del successore di Napolitano. E chissà cosa sarà allora di Renzi, ed anche di Letta nipote dell’ancor più noto Gianni.

Quanto poi ai precedenti, particolarmente a quelli che si auspicano di larghe e rapide convergenze per l’elezione del presidente della Repubblica, sgomenta che sia stato invocato anche quello di Sandro Pertini, e non solo di Francesco Cossiga e Carlo Azeglio Ciampi, eletti a larghissimo suffragio e al primo colpo, rispettivamente, nel 1985 e nel 1999.

All’elezione del socialista Pertini, nel 1978, si arrivò alla ben sedicesima votazione. E vi si arrivò con una maggioranza larga sì – 832 voti, contro i 506 che sarebbero bastati dalla quarta in poi – ma prodotta da oblique manovre politiche e inconfessabili ragioni personali che fecero torto per primo proprio a Pertini. Il quale per il suo valoroso passato di antifascista e per la sua specchiata onestà meritava francamente di essere eletto in ben altro modo e momento.

In particolare, il povero Pertini fu preferito da democristiani e comunisti, dopo un lungo e duro braccio di ferro con il Psi guidato da Bettino Craxi, soprattutto per i suoi 82 anni di età, che lasciavano presagire, fortunatamente a torto, un mandato presidenziale di assai breve durata. Lo favorì inoltre la presunzione che egli non volesse assecondare la politica e i disegni del leader del proprio partito, avendone peraltro pubblicamente condannato, durante il tragico sequestro di Moro, intervenuto nei mesi precedenti, la contestazione della cosiddetta linea della fermezza pretesa dal Pci e accettata dalla Dc.

Craxi, che aveva affrontato la successione anticipata a Giovanni Leone sul colle con l’obbiettivo dichiarato di non rimanere schiacciato dalla convergenza fra i due maggiori partiti realizzatasi nel 1976 all’insegna della “solidarietà nazionale”, finì per fare buon viso a cattivo gioco. Egli aveva inutilmente tentato di far passare le candidature dei socialisti Giuliano Vassalli e Antonio Giolitti, entrambi rifiutati dai comunisti: il primo a causa delle resistenze operosamente opposte, con il suo prestigio di giurista, alla linea della intransigenza durante il sequestro di Moro, e il secondo per avere osato uscire polemicamente dal Pci più di vent’anni prima, contro la condivisione dell’invasione sovietica dell’Ungheria.

Pertini seppe tuttavia riscattarsi politicamente dal modo ingiustamente obliquo, e vagamente iettatorio, con il quale era stato eletto. Fu proprio lui, per quanto non ne apprezzasse appieno carattere e linea politica, a nominare Craxi presidente del Consiglio nel 1983, spiazzando democristiani e comunisti. E a proteggerlo da ripetuti tentativi e rischi di crisi sino alla fine ordinarissima del proprio mandato settennale al Quirinale, nel 1985.

Va anche detto che neppure sotto quest’ultimo profilo, di assoluta e felice imprevedibilità, si può forse ritenere attuale il modello Pertini, chiamiamolo così. Esso corrisponde ben poco, in questa edizione della corsa al Quirinale, agli interessi o obbiettivi politici di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi. Dalla cui intesa, nonostante il grande e incredibile pasticcio appena esploso fra i due con la mancata depenalizzazione dei reati fiscali di relativamente modesta entità, dipende in buona parte, se non del tutto, sicuramente più che dagli umori e insulti di Beppe Grillo, la successione a Napolitano.

Scalfari, Gentiloni

Benvenuti alla giostra del Quirinale

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