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Gli investimenti cinesi stanno aumentando in misura rilevante in tutto il mondo. Non sono concentrati solo in Africa, America Latina e Medio Oriente, per valorizzare le risorse minerarie e agricole di tali aree e soddisfare le crescenti richieste dell’economia e della società cinesi. Sono rivolte anche in Europa, soprattutto nei settori energetico e manifatturiero. La Cina sta facendo uno sforzo enorme per ristrutturare la propria base industriale.

Cerca di passarla da una fondata su una grande disponibilità di manodopera a basso prezzo, a una che occupa gli anelli tecnologicamente più qualificati della “catena del valore”; quindi a maggior valore aggiunto. Per i suoi investimenti nei Paesi avanzati, la Cina dà priorità all’Europa rispetto agli USA, sospettati di subordinare l’economia a considerazioni di sicurezza nazionale. I Paesi europei non hanno tali remore, anche perché allo loro sicurezza globale provvedono gli USA. Beninteso, hanno limiti, connessi con la loro dipendenza tecnologica da imprese americane e alla spesso disinvolta applicazione extraterritoriale delle leggi americane in tema di diritti di proprietà intellettuale e di embarghi delle tecnologie strategiche.

Come avvenuto rispetto al Giappone negli anni Ottanta dello scorso secolo, l’opinione pubblica americana è soggetta a mobilitazioni, che chiama patriottiche, ma che in realtà mascherano un forte nazionalismo economico. Lo si era visto quando, taluni anni fa – “a furore di Congresso” – non era stato possibile alla Compagnia statale cinese del petrolio acquistare una compagnia petrolifera americana. L’orgoglio cinese era stato mortificato. Nonostante gli incontri semestrali degli Strategic and Economic Dialagues, i rapporti anche economici fra Washington e Pechino restano tesi.

Tutt’altra atmosfera esiste nei rapporti con l’Europa. Lo si è visto a Milano nel biennale incontro dell’ASEM (Asia-Europe Meetings). Ai cinesi tutti hanno fatto la corte. L’inaugurazione della ferrovia Germania-Cina e il rilievo dato dai media cinesi a tale infrastruttura – che consente di ridurre a “soli” 22 giorni i trasporti dal cuore industriale dell’Europa, rispetto a oltre la quarantina tramite Suez – e le prospettive di un ulteriore riduzione dei ghiacci dell’Artico e dell’apertura del passaggio a Nord-Est, dal Mare del Nord all’Asia Orientale – sono state esaltate come eventi che apriranno una nuova fase dei rapporti fra l’Europa e la Cina.

Oltre alle ragioni economiche, prima accennate, l’aumento degli investimenti cinesi all’estero, è dovuto alla volontà di Pechino di diversificare le enormi riserve di cui dispone e che ancor oggi sono quasi esclusivamente in dollari. La Cina teme certamente di poter diventare vittima di uno “scherzo” del tipo di quello praticato dagli USA, soprattutto nei riguardi del Giappone, con il Plaza Accord del 1986. Sa di essere estremamente vulnerabile al riguardo, così come lo è la sua economia troppo basata sulle esportazioni, come quella tedesca. Essa può essere colpita da misure protezionistiche statunitensi. Un fronte comune a tale riguardo fra Pechino e Berlino non può essere escluso.

In tal modo, la Cina pensa di poter fronteggiare le potenziali perdite che potrebbero derivarle dalla Transatlantic Trade and Investments Partnership, così come con le aperture all’ASEAN, alla Corea del Sud e all’Alleanza del Sud sudamericana, tende a realizzare lo stesso obiettivo nei confronti della TranPacific Partnership. Ragioni economiche, finanziarie e geopolitiche convergono.
Gli europei, inoltre stanno attraversando una crisi economica profonda. L’austerità per il contenimento del debito hanno prodotto una forte diminuzione di liquidità. Tutti i paesi europei cercano di attivare investimenti diretti esteri nelle loro economie, anche come strumento di penetrazione delle proprie esportazioni. Molti capi di governo sono andati a Pechino a chiedere finanziamenti e a concordare accordi commerciali.

L’Italia è stata finora alquanto emarginata. Però, nuovi finanziamenti si sono attivati negli ultimi due anni. Potrebbe divenire nel 2014 il paese europeo che riceverà una maggiore quantità d’investimenti cinesi. Sta valorizzando anche i legami culturali. Marco Polo e Matteo Ricci sono due figure popolari in Cina. Tutto fa brodo!
Molti hanno espresso preoccupazione per l’entrata della Cina in taluni nostri gioelli industriali, i pochi che ci sono rimasti. Taluni parlano che sia in atto una specie di colonizzazione alla rovescia. Beninteso, ogni iniziativa comporta sempre dei rischi. Non esiste nel mondo reale qualcosa che sia a rischio zero.

I rischi sono quelli di perdere la proprietà intellettuale, di porre imprese e dipendenti italiani nella mani di decisioni prese a Pechino al di fuori di ogni nostro controllo e di compromettere i nostri rapporti con le imprese e il governo USA, qualora dovessero aumentare le tensioni transpacifiche.
A parer mio, sono rischi immaginari. La globalizzazione, anche se in declino politico-strategico, con le sempre più forti tendenze alla regionalizzazione, continuerà a dominare il campo economico-finanziario. L’uscita dalla crisi che in Europa – soprattutto in Italia – dura da troppo tempo potrà essere superata solo con maggiori esportazioni, fatto che comporta una maggiore internazionalizzazione del nostro sistema produttivo.

Dobbiamo accettare qualche rischio di vedere erosa la nostra sovranità economica, pur di entrare nella seconda economia mondiale, che è poi quella il cui mercato è in più rapida espansione, rispetto a quello del sonnacchioso occidente. Quello che è importante è che la nostra politica sia in grado di monitorare quando accade. L’intelligence economica è perciò determinante. Occorre fare ogni sforzo per colmare i ritardi accumulati nel passato. Occorre che i Servizi siano dotati delle necessarie capacità in campo sia finanziario che tecnologico. Costituiscono un elemento sempre più centrale per la competitività del “sistema-Italia” e per far sì che il governo possa sostenere le imprese aggiungendo alle loro valutazioni economiche, valutazioni di ordine politico-strategico e di tutela del patrimonio tecnologico nazionale.

Cina

Ecco perché la Cina investe in Europa (e non negli Usa)

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