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L’azione della coalizione anti-Isis potrà avere successo in Irak. Lì esistono forze terrestri – i Peshmerga curdi e l’esercito iracheno – in grado di sfruttare i risultati conseguiti dagli attacchi aerei.

Tali condizioni non esistono invece in Siria. Lì, prima o poi, gli americani si renderanno conto che stanno determinando le condizioni di una vittoria di Assad, a meno di un massiccio intervento dell’ambigua Turchia, che considera con sospetto, al pari dell’Arabia Saudita, ogni avvicinamento fra Washington e Teheran e che teme il rafforzamento eccessivo dei curdi iracheni e siriani.

Se continuerà l’ancora indefinita posizione turca, non occorre essere dei veggenti per affermare che gli Stati Uniti saranno obbligati a cercare “costi quel che costi” la collaborazione dell’Iran. Solo l’appoggio di Teheran potrebbe garantire una transizione non disastrosa del potere da Assad ai militari.

Gli Usa sono consapevoli dell’errore fatto in Irak con lo sprovveduto scioglimento dell’esercito regolare. Non lo ripeteranno in Siria. Il mutamento di alleanza degli Usa avrà conseguenze determinanti sulla nuova geopolitica del Golfo.

L’unico modo per evitare tale soluzione è un consistente intervento della Turchia e dell’Egitto (perché non anche in Libia?) a sostegno delle monarchie del Golfo e della causa sunnita.

Ci vorrà tempo. Le decisioni difficili possono essere prese solo se si ha l’acqua alla gola, cioè quando ci si renderà conto che l’Isis non può essere distrutto con i soli bombardamenti e che solo l’esercito siriano può fornire le fanterie necessarie.

Guerra a Isis, la partita a scacchi fra Usa, Turchia e Iran

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