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Si torna a parlare di voto plurimo e maggiorato. Se ne è interessata la stampa nazionale che nei giorni scorsi ha fatto i conti in tasca alle partecipate di Stato e agli effetti sull’azionariato nel caso in cui queste società decidessero di avvalersi della nuova legge.

STORIA DI UNA RIVOLUZIONE
Quando a fine giugno nel Decreto Sviluppo fu introdotto il principio che le società quotate potessero modificare lo statuto, aumentando i diritti di voto attribuibili a ciascuna azione ordinaria, fino ad un massimo di due voti per azione (ne abbiamo parlato qui), si sollevò un polverone. Non solo perché veniva modificato uno dei punti cardine dell’ordinamento italiano: il principio “un’azione–un voto”, ma anche perché qualcuno ipotizzò che si trattasse di una mossa ad hoc per consentire al Governo di vendere quote importanti delle società partecipate (Enel, Eni e Finmeccanica), senza il rischio di perdere il controllo sull’assemblea.

L’ESPERIENZA FRANCESE
È vero che il voto multiplo esiste in Francia, ad esempio, dove, secondo un’analisi condotta nel 2013 da Proxinvest, principale proxy advisor francese e managing partner di ECGS, senza il doppio voto oltre il 60% delle risoluzioni proposte dalle società dell’indice SBF 120 sarebbero state bocciate. Confermando come il voto multiplo riduca notevolmente il peso decisionale degli azionisti di minoranza, che siano di breve o di lungo periodo.
Ma è altrettanto vero che applicare una cosa che funziona nel Nord Europa a un Paese come l’Italia dove la Borsa ha dimensioni molto più ridotte e l’azionariato diffuso è utopia, non è così facile.
Il 20 agosto il Decreto è stato trasformato in legge. Tutti i dettagli, non solo sul voto maggiorato ma anche sulla nuova Opa, li trovate qui.

PREVISIONI ITALIANE
Cosa succede alle partecipate di Stato domestiche con l’introduzione del voto plurimo? Il Tesoro ha fatto una simulazione per rispondere a questa domanda. Ha scritto Laura Serafini del Sole 24 Ore: “Il ministero dell’Economia sta approfondendo in questi giorni, anche con esperti esterni, i profili legali dell’impatto che l’introduzione del voto maggiorato potrebbe avere nelle società di cui lo Stato controlla il 30% del capitale. L’utilizzo dello strumento, introdotto con il dl 91/2104, viene preso in considerazione per consentire all’azionista di maggioranza di mantenere il controllo senza rischio di scalata pur scendendo sotto il 25 per cento. Ma in realtà, all’atto pratico di applicazione, può rivelarsi un’affilata lama a doppio taglio”.
Perché la maggiorazione del voto fino al doppio, può essere chiesta anche da altri soci presenti nel capitale. “Può accadere, dunque, che una volta “appesantito” il voto del Tesoro e di altri azionisti, l’eventuale uscita di altri soci maggiorati dal capitale possa avere effetti accrescitivi del peso delle singole partecipazioni portando chi è sotto la soglia per il lancio dell’Opa obbligatoria a superare il limite del 30 per cento”.

UNA NORMA PRO PMI FAMILIARI
Secondo il Corriere economia il voto maggiorato è “pensato soprattutto per favorire l’accesso alla Borsa delle imprese piccole e familiari, che grazie al voto potenziato possono collocare le aziende mantenendo la maggioranza assoluta, riguarda anche le società già quotate. Con almeno tre obiettivi: favorire privatizzazioni più ampie, perché lo Stato può vendere sul mercato quote maggiori di capitale delle società mantenendo però la stessa percentuale di diritti di voto; favorire un azionariato più stabile; consentire un disallineamento fra proprietà e influenza più trasparente rispetto a strumenti di controllo rafforzato come le strutture piramidali o i patti di sindacato”.
È ancora presto per fare bilanci ma, sempre secondo il Corriere, “i fondi internazionali, compresi quelli meno speculativi, sono azionisti poco interessati a iscriversi a registri di «fedeltà» e in genere, anche ascoltando i suggerimenti che provengono dai proxy advisor , aderiscono al principio «un’azione-un voto»”.

LE PARTECIPATE DI STATO
In società come Eni, Enel, Terna e Finmeccanica la partecipazione dello Stato arriva al 30% e con il voto maggiorato, applicabile tra due anni, questo 30% potrebbe arrivare a pesare il 46% con la conseguenza che lo Stato potrà collocare nuove quote e continuando a pesare per il 30%.

… E LE ALTRE
“Più complicato disegnare scenari su una società come Rcs mediagroup, che ha diversi azionisti rilevanti non più legati da un patto. Ipotizzando che i più importanti si iscrivano al registro la base dei diritti di voto aumenterebbe di circa il 50% perciò il primo socio Fiat, oggi al 16,7% potrebbe votare per circa il 21,5%. E in Generali, sulla base degli assetti attuali, se «raddoppiassero» i voti i soci sopra il 2% il più importante, Mediobanca, che ha oggi il 13,2%, potrebbe aumentare la propria influenza con il voto al 20-21% circa. In Montepaschi il patto della fondazione «aumenterebbe» al 13-14%. In Unicredit le tre fondazioni (Cariverona, Crt, Carimonte) «salirebbero» nei voti al 13-14%. In Intesa Sanpaolo (Compagnia, Cariplo, Padova, Firenze e Bologna) al 35-37% circa”.

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