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La Russia ha iniziato l’invio di elicotteri d’attacco in Iraq: i primi pezzi, stando a quanto riportato da Interfax, sarebbero arrivati nel fine settimana scorso.

Si tratta di Mi-35 (versione da esportazione dei Mi-24) che Mosca sta inviando in rispetto ad un accordo stipulato tra i due paesi già alla fine di giugno, e che comprenderebbe anche i Su-25 di seconda mano che l’aviazione irachena sta utilizzando già da qualche settimana contro lo Stato Islamico.

A fine giugno, si era parlato dello shopping moscovita di Maliki, probabilmente frustrato dall’impotenza aerea davanti all’avanzata dell’IS – «Se avessimo avuto gli aerei, li avremmo fermati». A quanto pare, inoltre, il presidente iracheno era anche piuttosto irritato dalla lentezza con cui il processo di acquisizione e consegna degli F-16 Block 52 americani si stava muovendo. Nel contratto russo, secondo Igor Korotchenko, redattore capo della rivista specialistica Natsionalnaya Oborona (“Difesa nazionale”), sarebbe compreso anche l’invio di caccia Su-30K – anche questi di seconda mano, forniti inizialmente all’India, poi sostituiti con i più aggiornati SU-30MKI multiruolo, e che dopo la restituzione i russi avevano parcheggiato per anni in Bielorussia per un maquillage.

I nuovi apparecchi andranno ad integrare i Cessna AC208 Caravan che gli iracheni usano, modificati, per il lancio dei missili Hellfire forniti dagli Stati Uniti e a potenziare la già discreta flotta elicotteristica, costituita da Mi-35 e Mi-8/17 – anche questi utilizzati ultimamente per il lancio dei missili statunitensi, piazzati sotto le alette. Più avanti arriveranno, secondo quanto trapelato, anche Mi-28 e postazioni da lancio antiaereo Pantsir S1 (denominazione NATO “SA-22 Greyhound”).

Putin ha inviato gli armamenti richiesti dal governo iracheno con molta velocità: dietro alla pronta risposta russa, si possono leggere tre retroscena. Innanzitutto, la necessità di Mosca di velocizzare la spedizione, è conseguenza dell’inasprimento delle sanzioni internazionali contro i commerci russi, destinate ad investire anche il settore militare. Putin non poteva aspettare, pena vedersi bloccato l’affare. Poi c’è una lettura geopolitica: l’Iraq è strettamente legato agli Stati Uniti, ma il ritardo delle consegne ha portato Maliki a storcere il naso con Obama. Adesso Putin mostrandosi disponibile al sostegno, cerca di tirare ancora l’Iraq verso il proprio asse: in cui per altro Maliki, sciita, aveva già un piede ben piantato (insieme a Iran, Siria e Hezbollah libenesi). Terza questione, Putin, che si vede addossate le tragiche responsabilità per ciò che succede in Ucraina (e per il disastro del volo MH17), mostrandosi disponibile all’invio di aiuti (militari) per contrastare il Califfato, si allinea – almeno in questo – con le posizioni della comunità internazionale.

La lotta allo Stato Islamico continua senza sosta, anche se a quanto pare gli uomini del califfato hanno momentaneamente rallentato la loro avanzata. In questa fasa l’IS si sta concentrando nel rafforzare il controllo sui territori conquistati, anche attraverso gesta simboliche. Come, per esempio, l’abbattimento di diversi mausolei: la distruzione della tomba del profeta Giona a Mosul (considerata dallo Stato Islamico «luogo di apostasia e non di preghiera»), ha fatto molto scalpore e ricevuto lo sdegno del mondo, ma era soltanto l’ultima di questo genere di azioni. Prima, luoghi di culto delle minoranze (sciiti su tutti), erano stati ridotti in macerie a Mosul, Talafar e Kirkuk, anche la tomba del profeta Daniele era stata devastata, così come il mausoleo di San Giorgio (patrono di Mosul) e la tomba di Seth (venerato da ebrei e cristiani, ma anche musulmani, come figlio di Adamo e Eva).

Lo schema ripercorre un filone già conosciuto, visto nel 2001 con i Buddha di Bamiyan distrutti dai talebani o, più recentemente, un paio di anni fa in Mali, quando i ribelli salafiti di Ansar Eddine rasero al suolo diverse tombe dei santi sufi a Timbuctù. La giustificazione, la motivazione, di questa furia iconoclastica sta in una dubbia regola dell’Islam richiamata dallo Stato Islamico, secondo cui devono essere distrutti tutti i monumenti funebri eretti al di sopra del terreno, in quanto possibili luogo di idolatrie.

In realtà, dietro alle azioni degli uomini dell’IS si legge spesso l’odio religioso ed etnico, lo stesso che li ha portati a spazzare via tutti i cristiani di Mosul, saccheggiati e derubati, prima di essere espulsi dalla città – pena la morte o la conversione. O contro i curdi, a cui il mandato di espulsione scadeva lo scorso sabato – i peshmerga difendono comunque il proprio territorio dall’avanzata del Califfato, e combattono ancora a Telkeif, località una ventina di chilometri a nord-est di Mosul popolata da una maggioranza cristiana.

Davanti all’odio dello Stato Islamico, la paura, adesso, è che il governo Maliki, già noto per le tendenze settarie, possa reagire di conseguenza.

Un paio di mesi fa, secondo quanto rivelato da Associated Press, sarebbe stato addirittura il vice presidente Joe Biden, in una telefonata del 16 maggio, ad ammonire il premier al-Maliki a non utilizzare barrel bomb contro quello che ancora era l’ISIS.

L’Iraq si trovava da svariati mesi, a dover contrastare l’importante offensiva dei jihadisti, anche se ancora erano confinati nella provincia di Anbar. L’esercito iracheno era quasi inerme: armi e strumentazioni lasciate dagli Stati Uniti non sono mai state sufficienti. Soprattutto davanti all’impreparazione dei soldati. E allora, proprio per colpire le basi dell’Isis in Anbar (a Fallujah, Garma, e Saqlawiyah), al-Maliki avrebbe ceduto alla tentazione delle barrel bomb: comode, economiche, spesso macabro strumento di repressione contro quelle parti di popolazione che accoglievano i ribelli dell’Isis, e unico metodo per imprimere la propria supremazia.

A questo ha fatto da contorno la scarsa attenzione riservata dai media mondiali alle vicende interne del paese, almeno fino alla presa di Mosul: e così quelli passati sono stati periodi in cui il governo ha potuto utilizzare tecniche di guerra al di fuori delle convenzioni, quasi senza controlli.

Alcuni testimoni hanno raccontato ad Associated Press che i bombardamenti condotti dagli elicotteri iracheni, sono avvenuti quasi esclusivamente di notte, per evitare le riprese dei video amatoriali. Il rischio era che le immagini messe in rete potessero diventare virali e trasformarsi in un elemento per la denuncia umanitaria – come è spesso accaduto in Siria. Ma bombardare di notte con i barili, limita ulteriormente la capacità di centrare l’obiettivo: sarebbero state diverse le vittime civili, anche secondo quanto riportato online dai profili dei ribelli.

Il governo iracheno nega di aver usato i barili bomba, ma a smentire, oltre alle testimonianze sul campo, si aggiungono anche le analisi su fotografie e reperti, di numerosi esperti di armamenti . L’inglese Eliot Higgins, che con il suo blog Brown Moses è diventato un riferimento mondiale per lo studio delle armi nel conflitto in Siria, ha riconosciuto nei resti delle botti esplose nell’Anbar una tecnica di produzione simile a quella siriana: circostanza che in definita, incolperebbe dell’uso l’esercito di Maliki.

Ora il rischio che le ripercussioni dell’odio etnico dimostrato finora dal Califfo, anche come conseguenza esasperata del settarismo di Maliki, e la potenza militare dell’IS, portino il governo a rispondere con metodi impropri. In pericolo, più che i brutali uomini del Califfo, ci sono le popolazioni civili che in questo momento si trovano a vivere sotto lo Stato Islamico.

@danemblog

 

Il rischio "Maliki" nella risposta militare allo Stato Islamico

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