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In questa fase molto comunicativa degli Houthi, l’organizzazione che controlla il nord dello Yemen da circa otto anni, il “viceministro degli Esteri” del gruppo, Hussein al Ezzi, ha detto di essere pronto a normalizzare definitivamente i rapporti con l’Arabia Saudita, accusando gli Stati Uniti di ostacolare gli sforzi per raggiungere un accordo.

Al Ezzi ha parlato ai giornalisti durante una conferenza stampa come se il suo ruolo pseudo-istituzionale non fosse frutto del risultato di una sanguinosa guerra civile che dura dal 2014/2015 e per questo non formalmente riconosciuto dalla Comunità internazionale — che anzi accusa gli Houthi di pratiche terroristiche e brutali violazioni dei codici di guerra e dei diritti umani. L’incontro con i giornalisti è stato a Sanaa, capitale yemenita, e media come la propagandista russa RT lo hanno trasmesso in diretta.

Ma gli Houthi vogliono che gli venga riconosciuto un qualche standing internazionale. Lo cercano in qualche modo formale, perché di fatto hanno dimostrato di averne diritto respingendo la coalizione sunnita a guida saudita che sin da subito ha provato a contenerli e perché hanno dimostrato di essere un attore in grado di disarticolare la geoeconomia globale – come stanno facendo in questi mesi con gli attacchi alle portacontainer lungo le rotte indo-mediterranee che collegano Europa e Asia, anche a livello digitale.

Controllano un’area strategica del mondo — quella affacciata tra Suez, Bab el Mandeb e Oceano Indiano occidentale — e lo fanno grazie alle armi fornite dall’Iran. Teheran vanta informalmente di avere ancora influenza sullo Yemen, ma la realtà è che questa esiste solo quando l’agenda degli yemeniti si sovrappone con gli interessi iraniani (accade spesso quando si tratta di disturbare gli interessi israeliani e occidentali).

Sia sulla guerra civile che contro i traffici euro-asiatici, gli Houthi hanno dimostrato di avere le idee ben chiare su come sfruttare il contesto per capitalizzare i propri interessi. Mascherano le attività con la narrazione ideologica. La guerra raccontata come necessaria rivalsa contro i soprusi che i governi succedutisi a Sanaa hanno compiuto nel corso degli anni contro la minoranza zaidita (setta della famiglia dello sciismo), che intendono rappresentare. Gli attacchi ai cargo lungo i chokepoint dell’Indo Mediterraneo come rappresaglia per l’invasione di Gaza contro il nemico esistenziale israeliano (e l’Occidente americano-centrico che lo appoggia).

Nella realtà, la leadership houthi usa certi contesti per spingere la narrazione, fomentare i proseliti (vecchi e nuovi) e promuovere i propri interessi. In grande, la creazione di un’entità statuale da poter amministrare ed esercitare prove muscolari militari è considerato come un vettore per raggiungere l’obiettivo.

Al Ezzi ha espresso “particolare gratitudine” all’Arabia Saudita per la sua riluttanza a unirsi agli attacchi degli Stati Uniti e del Regno Unito sullo Yemen, aggiungendo che la milizia è “desiderosa” di iniziare negoziati di pace con il Regno. “Sanaa (dice usando la sineddoche che sta a significare che loro controllano la capitale, dunque rappresentano lo Yemen, ndr) è pronta per la pace con Riad nonostante le sfide poste dagli Stati Uniti e dai gruppi yemeniti ad esso associati”.

Riad è in effetti in una posizione problematica. Da un lato, vuole negoziare un accordo per uscire dalla guerra; dall’altra è consapevole che qualsiasi intesa sarebbe una sconfitta da gestire attentamente. In entrambe le situazioni serve muoversi per proteggere la narrazione interna innanzitutto. Il regno guidato de facto da Mohammed bin Salman ha cambiato sostanzialmente linea sugli affari regionali.

Meno di dieci anni fa, credeva fermamente nella necessità di esercitare potere con la forza militare, ora sta cercando di normalizzare una serie di situazioni complesse (dal rapporto con l’Iran alle relazioni con Israele fino alla guerra in Yemen). Perché la distensione generale è percepita come necessaria da questo nuovo Medio Oriente che Riad intende guidare – e come spiega una fonte saudita, “il nuovo Medio Oriente detesta il vecchio Medio Oriente”.

Nel frattempo, anche il governo yemenita riconosciuto a livello internazionale – quello difeso dai sauditi – sta cercando di usare la situazione a proprio vantaggio, sostenendo che le pressioni delle Nazioni Unite per porre fine all’offensiva sulla città di Hodeidah nel 2018 hanno portato all’escalation di violenza degli Houthi sul Mar Rosso. Il ministro dell’Informazione yemenita, Muammar Al-Eryani, domenica ha incolpato l’Onu e l’ex inviato per lo Yemen, l’americano Martin Griffiths, di queste pressioni.

Le forze governative controllavano l’aeroporto di Hodeidah, così come gli ingressi meridionali e orientali della città, ed erano a pochi chilometri dal porto cittadino prima che le Nazioni Unite chiedessero di porre fine all’offensiva. All’epoca, le Nazioni Unite avevano avvertito che l’allargarsi del conflitto a Hodeidah – occupata dagli Houthi – avrebbe bloccato il rifornimento del 70% degli aiuti umanitari del Paese e di altri beni essenziali attraverso il porto della città. “Il mondo intero sta pagando un prezzo per aver ignorato gli avvertimenti del governo sui pericoli derivanti dal permettere al regime iraniano e alle sue armi nella regione, in particolare alle milizie Houthi, di controllare la città di Hodeidai”, ha dichiarato al Eryani all’agenzia di stampa Saba.

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