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Lo scontro in Medio Oriente tra Israele e Hamas infiamma la Striscia di Gaza, in queste ore teatro di un vero e proprio esodo.

L’ESODO DALLA STRISCIA

Circa 17mila persone hanno abbandonato le proprie case nel nord della parte di territorio palestinese controllata dai miliziani di Hamas e hanno trovato rifugio presso le sedi delle Nazioni Unite, come l’ospedale di Jabalia, in vista di nuovi bombardamenti e di una possibile offensiva di terra da parte di Israele.

L’INCURSIONE ATTESA

Una incursione che, nonostante le attese, ancora non c’è stata. Dopo giorni di botta e risposta, nella notte tra sabato e domenica è arrivato il primo blitz delle truppe di Tel Aviv, che hanno condotto una breve operazione contro un sito di lancio di missili di Hamas nel nord della Striscia. Nonostante ciò il primo ministro Benyamin Netanyahu è stato chiaro: se i razzi non cesseranno, Israele estenderà l’intervento e l’operazione terrestre potrebbe essere inevitabile. Un’ipotesi possibile per il fondatore di Stratfor, George Friedman, eppure ancora non decisa internamente dalle gerarchie militari e politiche, che al di là dei proclami riflettono bene sui pro e i contro che un’occupazione di Gaza comporterebbe. Tra i primi senz’altro la possibilità di smantellare l’apparato missilistico di Hamas. Nei secondi, invece, il rischio che ci si trovi davanti un nemico ben più organizzato del 2008 nell’operazione Piombo fuso.

IL BILANCIO DEGLI SCONTRI

Per il momento, da parte israeliana, le tensioni prendono la forma di nuovi raid messi a segno anche questa mattina dall’aviazione di Tel Aviv nel settimo giorno di questa operazione, Protective edge, realizzata per fermare il lancio di razzi da parte dei gruppi palestinesi.
Su Israele – secondo il portavoce militare – dall’inizio delle operazioni sarebbero stati inviati 220 missili, più che in tutto lo scontro del 2012. Un fuoco incrociato che li vede partire non solo dalla striscia, ma anche da Siria e Libano. Tra gli ordigni usati negli attacchi di Hamas ci sono gli M302 a lunga gittata, la cui vendita viene imputata all’Iran, che avrebbe rinnovato le mai del tutto sopite intese con il gruppo.

GLI OBIETTIVI

Gli attacchi israeliani – al centro dei quali ci sono obiettivi militari, covi e case degli appartenenti al gruppo terrorista – hanno causato finora 172 morti e almeno 1.130 feriti, con un bilancio in continuo aggiornamento. Gli attacchi di stamane sono stati condotti su siti delle Brigate Ezzedim al-Qassam, braccio militare di Hamas. Non solo. Un drone partito per la prima volta dalla striscia di Gaza e arrivato nel sud di Israele (altri sarebbero in volo) è stato abbattuto da un missile Patriot di Tel Aviv sui cieli di Ashdod. Mentre in Cisgiordania secondo fonti palestinesi sarebbero stati arrestati cinque leader del movimento a Nablus e Jenin.

L’ATTENZIONE INTERNAZIONALE

Sul conflitto si è riversata l’attenzione della comunità internazionale, che dopo gli appelli al cessate il fuoco (tra i quali quello del presidente palestinese Abu Mazen), prova attraverso la diplomazia riportare la parti al dialogo. La cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese François Hollande e la titolare della Farnesina Federica Mogherini hanno già espresso la propria preoccupazione e un invito a discutere. Mentre il Segretario di Stato americano John Kerry sarà in Egitto domani per discutere una tregua, dopo aver già avuto ieri un colloquio telefonico con Netanyahu.

IL “DUBBIO” DI ISRAELE

Tel Aviv per il momento preferisce mantenere un atteggiamento fermo, non chiudendo ai negoziati, ma aspettando che un primo segnale di distensione arrivi da Gaza, come sottolineato dallo scrittore e giornalista israeliano Yossi Melman. Alla base di ciò c’è proprio la parziale incertezza su cosa fare e forse, anche la fiducia nei propri mezzi e la convinzione di non cedere alle provocazioni iniziate con il rapimento e la morte dei tre adolescenti lo scorso 12 giugno e che hanno dato vita al conflitto.

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