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Il governo tedesco ha deciso di lanciare un fondo nazionale, di circa $1.1 miliardi di dollari, a supporto della sua strategia di de-risking dalla Cina e dal controllo delle sue industrie delle principali catene di approvvigionamento per le tecnologie green, in particolare delle fasi di estrazione e raffinazione dei minerali e materiali critici.

Secondo quanto ricostruito da Bloomberg, l’iniziativa vedrà la KfW Development Bank, istituto di credito controllato dallo stato tedesco, svolgere un ruolo chiave nella selezione lungo la filiera di progetti ritenuti di interesse vitale per l’industria tedesca (in particolare, quella automotive) per assicurare forniture di litio, nichel, manganese, cobalto, silicio metallico e terre rare. Input essenziali per la manifattura di batterie, microprocessori e turbine eoliche.

L’obiettivo della banca sarà quello di iniettare capitali (principalmente risorse di equity) per acquisire quote di minoranza e strategiche in progetti minerari e di processazione dei materiali, in modo da avere controllo sui siti e decidere sugli investimenti a lungo termine. La sicurezza delle forniture, specialmente dopo il periodo pandemico, la carenza di chip e soprattutto nel contesto della decarbonizzazione, sta diventando una questione non solo di competitività delle industrie a valle, ma di vera e propria sopravvivenza economica.

Si tratta di un’iniziativa che cerca, quantomeno, di fare da contraltare alla strategia cinese di acquisizione di progetti minerari promettenti all’estero – soprattutto litio e cobalto – di cui la Repubblica Popolare Cinese non dispone di adeguate riserve domestiche per sostenere la domanda dell’industria delle batterie, dominata a livello globale da Catl e Byd.

La scelta della Germania di dedicare fondi pubblici (seppur non sia ancora chiaro in che modalità opererà la KfW: un esempio virtuoso potrebbe essere il Jogmec, l’organizzazione a controllo statale del Giappone) emula, in parte, quanto già annunciato dalla Francia con la nascita di un fondo sovrano dedicato ai materiali critici. I due colossi industriali dell’UE, particolarmente esposti sul fronte dell’elettrificazione della flotta automotive, sono tra i paesi più attivi nel cercare di assicurare linee di approvvigionamento sicure per le proprie industrie: inoltre, dispongono di agenzie e osservatori nazionali dedicati (rispettivamente la DERA e l’OFREMI) che svolgono una funzione essenziale nella raccolta di dati d’intelligence mineraria e di studi sulle supply chain.

L’iniziativa tedesca, secondo quanto ricostruito, verrà coordinata con Parigi e Roma: l’Italia è stata infatti, insieme agli altri due paesi fondatori, tra le promotrici di un ruolo più attivo sul dossier dei minerali critici in una serie di dialoghi trilaterali svoltisi nel corso dell’estate del 2023. Inoltre, risponde agli obiettivi dell’European Critical Raw Materials Act che prevede di aumentare la quota di produzione e raffinazione del blocco europeo entro il 2030 rispettivamente al 10 e 40% del consumo UE di “materie prime strategiche”. Si tratta, comunque, di obiettivi molto ambiziosi e difficilmente raggiungibili soprattutto per le tempistiche dilatate per le autorizzazioni dei progetti minerari europei.

Nel breve-medio periodo, la diversificazione degli approvvigionamenti – con dialoghi bilaterali con i paesi ricchi di risorse come l’America Latina e l’Africa – rimane la strada più percorribile, soprattutto se all’iniziativa diplomatica e di politica commerciale si affiancano capacità di investimento per rilevare progetti lungo la filiera.

Fino ad ora, la cornice legislativa dell’Eu CRM Act è rimasta senza un vero e proprio meccanismo attuativo e di implementazione, oltre al fatto che manca il coordinamento con altri regolamenti come la tassonomia europea, la legislazione in materia di protezione ambientale dagli agenti chimici e i requisiti di eco-design che molto spesso vanno a cozzare con le necessità di sicurezza sulla supply chain. Ma l’elemento più critico è l’assenza di un fondo pubblico europeo che possa svolgere il ruolo di catalizzatore di investimenti come l’Inflation Reduction Act (IRA) americano. Oltre ai considerevoli incentivi, l’Ira prevede contemporaneamente meccanismi di screening per minimizzare l’influenza cinese nell’ecosistema delle batterie nordamericano, seppur un completo decoupling sia praticamente impossibile come testimonierebbe la rinnovata partnership tra Tesla e Catl.

Quello che si può appurare dalle iniziative franco-tedesche è che proprio per questa incapacità dell’UE di competere, in scala, con l’IRA (con l’eccezione di un fondo di venture capital, in collaborazione con l’European Battery Alliance) ha spinto Parigi e Berlino a correre ai ripari, per provare a colmare quel gap di investimenti nei segmenti più cruciali delle supply chain e che attualmente vede l’UE fortemente dipendente dalla Cina. E che segnala, nonostante le diatribe politiche, come per i due governi il percorso di elettrificazione, che riguarda specialmente i colossi automotive come Volkswagen, BMW, Renault dipenderà molto dalla capacità di accedere ai materiali critici.

Attualmente, gran parte del vantaggio competitivo dell’ecosistema EV e delle batterie cinese riguarda non solo la tecnologia, ma anche la forte integrazione verticale delle aziende dalle attività estrattive a quelle di manifattura delle batterie. Un modello difficilmente emulabile senza sacrificare margini di profitto (gli investimenti richiesti per operare a monte sono significativi), ma con il supporto delle banche come KfW o di fondi pubblico-privati come InfraVia (Francia) vi saranno più possibilità per rafforzare il posizionamento lungo la filiera.

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