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“Un omaggio a Vladimir Putin”, così Hamas ha definito il rilascio di due ostaggi di nazionalità russa catturati durante il sanguinoso attentato del 7 ottobre — quello che ha dato il via all’attuale escalation militare tra il gruppo palestinese e Israele, continuata con l’invasione della Striscia di Gaza. Il messaggio è chiaro: Hamas prova a dire che la catena di negoziati condotta in Qatar e coordinata dagli Stati Uniti può essere aggirata.

E per aggirarla la via migliore potrebbe essere non far parte di quello schema, che viene ascritto al modello occidentale di governance degli affari internazionali. In largo, la guerra a Gaza è anche questo. “C’è un fast track se si negozia direttamente”, fa notare un osservatore, che appunto significa non passare per il sistema di dialogo guidato a Doha sotto egida americana.

Tant’è che Hamas ha colto l’occasione, Mosca ha fatto da sponda, l’Iran si è mosso di conseguenza. Teheran, che finanzia Hamas da anni, ha giocato qualche carta per liberare direttamente alcuni ostaggi (scegliendo con acutezza tra quelli di nazionalità straniere gli orientali, come i thailandesi, Paese con cui Teheran intende lavorare nell’Indo Pacifico).

Secondo una fonte palestinese, che parla con Formiche.net a condizioni di anonimato, i problemi logistici che ieri avrebbero bloccato il rilascio (ritardato di dodici ore) degli ostaggi israeliani, concordati dalle regole che hanno permesso l’estensione della pausa umanitaria fino a oggi, in realtà non c’erano. È vero che muovere quelle persone è complicato, perché occorre evitare che i servizi segreti israeliani ti seguano e poi ti diano la caccia, ed è vero che in Cisgiordania c’erano disordini. Ma, secondo questa ricostruzione che non è possibile verificare, il tempo è stato allungato anche per dare risalto al rilascio volontario dei due cittadini russi.

La geopolitica degli ostaggi era attesa. Rapire persone di nazionalità diverse, non solo israeliani, era chiaro che servisse a poter elevare la questione degli ostaggi a crisi internazionale. E gli effetti sono in corso. È una coincidenza se ancora non sono stati rilasciati cittadini americani, se si esclude la piccola Abigail Mor Edar, 4 anni, liberata forse anche per pressare Washington sulla necessità di continuare la pausa?

La guerra ibrida contro Usa2024 

La questione pesa ulteriormente sull’impatto che la guerra israeliana sta avendo sulla campagna elettorale per Usa2024, perché è assolutamente orizzontale. Dentro ci trovano istanze i trumpiani America First, il blocco dei giovani democratici, i più tradizionali Dems e Reps. Nelle attività in corso — anche a livello di infowar — in parte trova sintesi la narrazione del blocco revisionista che vuole intralciare la prosperità americana, ma anche quella dell’impero decaduto e dell’inefficienza dell’attuale amministrazione. Se il primo raggruppa, sotto uno spirito nazionalista, gli elettori attorno alla Casa Bianca, gli altri due segmenti narrativi complicano il lavoro della presidenza verso la rielezione.

Il momento è delicato perché questa situazione si abbina alla necessità di approvare un pacchetto di assistenza militare a Israele. Il Congresso dovrebbe dare luce verde a 14,3 miliardi di dollari che la Casa Bianca ha concordato con gli israeliani. Le trattative le sta portando avanti il Consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, e sono molto incentrate a superare lo scoglio democratico: ci sono diversi senatori che si stanno facendo portavoce dei malumori del partito e chiedono che in cambio Israele permetta aiuti umanitari e smetta di martellare le aree civili della Striscia — questione che è tecnicamente impossibile visto che Hamas usa gli ambienti civili per nascondersi.

La guerra ibrida contro gli Stati Uniti, che passa dalle attività delle milizie filo iraniane nella regione alle manovre all’Onu sfruttando la crisi di Gaza, tocca l’intimo della politica e dell’opinione pubblica in un momento delicatissimo e calcando sulle polarizzazioni interne. Se da un lato i leader leftist subiscono pressioni anche personali dalle loro constituency (c’è un sit-in fisso sotto casa del senatore di sinistra Bernie Sanders), dall’altra i Repubblicani rilanciano che dettare condizioni a Israele significa ingerenza nelle attività sovrane dello Stato ebraico e in generale non permettere agli israeliani di combattere Hamas e dunque il terrorismo (con ricadute retoriche sulla sicurezza degli ebrei e in generale su quella di Israele, e dunque con effetti anche per gli investimenti reciproci americani).

Narrazioni e interessi

Sulla vicenda, Joe Biden ha già perso la fascia giovane dell’elettorato, che per il 70% disapprova il suo operato sulla crisi; tiene ancora gli over 65 che hanno visioni più tradizionaliste (ossia più sbilanciatamene pro Israele). Ma teme che la situazione possa essere compromettente in termini di consenso generale. Anche per questo c’è in discussione una nuova fase che possa sfruttare un ulteriore prolungamento della tregua e l’ambizione di farne un cessate il fuoco più stabile. Ma anche in questo caso, gli ostaggi contano. Israele vuole il rilascio completo di tutte le persone rapite il 7 ottobre, condizione necessaria per le richieste successive — poi vuole che Hamas si smilitarizzi e lasci la Striscia.

Il lavoro che anche in questi giorni il segretario di Stato americano, Antony Blinken, sta portando avanti ruota attorno a questo equilibrio: il governo israeliano sa che Hamas per accettare certe condizioni chiederà il rilascio di ulteriori prigionieri palestinesi precedentemente arrestati dagli israeliani anche per crimini gravi. Anche perché Hamas conosce il valore dei suoi ostaggi, accetta di continuare la pausa per altre 24 ore (ne cede altri dieci), sa che sono pregiatissima merce negoziale e intanto rivendica attacchi in Israele sostengo che si aprirà un fronte ancora più ampio – ossia ammette di essere consapevole che senza ostaggi potrebbe finire nel tritarcarne militare israeliano.

Lo scenario deleterio è un’assenza di soluzione che si traduce in una continuazione dei combattimenti nella fascia sud della Striscia e magari l’uccisione di ostaggi — o per rappresaglia o sotto i bombardamenti israeliani. Ancora di più, per Washington se quelle vittime tra gli ostaggi fossero cittadini americani. Gli Usa lavorano anche con questo pensiero, oltre a quello di stabilizzare la situazione per ragioni intenzionali. Russia o Iran, o Cina, nonostante dichiarazioni e appelli per la pace e soluzioni a due astati, sono molto meno coinvolti sulla necessità di ottenere risultati. Anche perché questa situazione crea problemi all’America.

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