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Per quasi settanta anni l’Europa ha potuto svilupparsi in un’economia di pace. La deterrenza convenzionale e nucleare (soprattutto americana) ha garantito la stabilità, richiedendo investimenti limitati nelle armi convenzionali che hanno puntato più sulla qualità che sulla quantità. Anche le missioni internazionali hanno assorbito contenute risorse militari e le fasi combattenti dei pochissimi veri interventi armati sono durate poco tempo e non hanno creato eccessivi problemi nell’approvvigionamento di sistemi d’arma e munizionamento.

Si è, quindi, persa la cultura dell’economia di emergenza, per non parlare di quella di guerra. I relativi strumenti giuridici, economici, gestionali ereditati dal passato hanno così finito con l’essere superati e sono oggi largamente inutilizzabili perché erano stati costruiti in un mondo che da molto tempo non c’è più.

Da poco più di due anni il quadro di riferimento è radicalmente cambiato: il doveroso sostegno all’Ucraina e la fine della speranza che la guerra scatenata dalla Russia possa concludersi rapidamente stanno prosciugando le capacità difensive europee, mentre resterà a lungo insoddisfatta l’indispensabile esigenza di aumentare tali capacità se non altro a scopo di deterrenza per tutelare la nostra libertà e il nostro modello sociale.

Un’efficace risposta europea richiederà, quindi, inevitabili sacrifici, affrontabili solo con una forte volontà politica: merce rara nel Vecchio continente, ancora intriso di egoismi nazionali, ingenuità, ideologie, opportunismi. Ma la forza della realtà potrebbe alla fine prevalere, anche se non ve ne può essere la certezza.

La difficoltà del momento è ben rappresentata dalla contraddizione fra l’aumento delle spese militari (con qualche sistematico ritardatario, come l’Italia) e la difficoltà di trovare fornitori in grado di soddisfare le molteplici esigenze di equipaggiamenti, disponibili o che potrebbero essere rimessi in produzione, e di nuovi che, invece, richiederanno molti anni per arrivare sul mercato in quantità adeguate.

Aumentare le capacità produttive europee rappresenta la grande sfida dei prossimi anni. Potrebbe essere relativamente semplice incrementare la produzione di munizioni (a parte quelle “intelligenti” di grosso calibro) o di mezzi terrestri (a parte i veicoli pesanti da combattimento cingolati e ruotati). Ma per tutti gli altri sistemi d’arma (velivoli e elicotteri da combattimento, unità navali, sistemi missilistici) sarà necessario non solo potenziare gli impianti di integrazione e assemblaggio, ma anche coinvolgere tutta la lunga catena dei fornitori di parti, componenti, apparati e sottosistemi. In ogni caso bisognerà trovare nuovi giovani tecnici (e anche vecchi), andandoli a “rubare” alle imprese che operano nelle tecnologie di punta in campo civile. Per farlo bisognerà, fra il resto, restituire la giusta dignità all’industria della difesa, compromessa da anni di “criminalizzazione” o comunque di scarsa considerazione.

L’Unione Europea e gli Stati membri dovranno rafforzare e potenziare gli strumenti messi a punto nell’ultimo decennio per cominciare ad integrare il mercato europeo della difesa, sostenere la ricerca e sviluppo e gli acquisti in collaborazione, omogeneizzare le regole sugli investimenti esteri nelle imprese strategiche, ma dovranno anche inventarne di nuovi. Se lo scenario è radicalmente cambiato, come ammettono tutti, non si può sperare di potersi limitare ad agire come si è fatto fino ad ora. Servono anche nuovi strumenti giuridici ed economici per fronteggiare un’economia di emergenza e non più di pace. Di qui la necessità di uno sforzo coraggioso della prossima Commissione e Parlamento europei per mettere a punto nuove iniziative che rafforzino l’Europa della difesa e, insieme, facciano crescere la consapevolezza dell’opinione pubblica sulle minacce sempre più vicine che ci circondano.

Queste potrebbero essere, fra le altre, alcune delle ipotesi da considerare:

Primo, fare acquistare nuovi impianti e nuovi macchinari dai ministeri della Difesa e farli utilizzare dalle industrie del settore attraverso accordi tipo leasing. Questo potrebbe accelerare ed aumentare il loro impegno al potenziamento della produzione e dimostrare concretamente quel sostegno pubblico che, a sua volta, può incentivare i finanziamenti privati.

Secondo, prevedere indennizzi europei nel caso di equipaggiamenti destinati ad un paese terzo e dirottati ad un paese europeo. In questi casi bisognerebbe impegnare le Istituzioni europee per gestire con il proprio peso politico, economico e commerciale tutta l’operazione in modo da limitare le eventuali ricadute negative sul mercato militare internazionale. Quello che potrebbero fare gli Stati membri per le loro esigenze dovrebbe essere ripetuto dall’Unione per far fronte alle esigenze collettive.

Terzo, consentire di derogare dalle attuali normative europee sugli acquisti di equipaggiamenti militari, proseguendo il finanziamento dei programmi di ricerca e sviluppo riconosciuti come “europei” anche per le fasi di industrializzazione e acquisizione. Questo favorirebbe sia il lancio di nuovi programmi comuni sia la successiva adesione di altri Stati membri come clienti, spingendo verso una crescente comunalità degli equipaggiamenti utilizzati dalle Forze armate europee.

Quarto, escludere dal campo di applicazione Iva e includere nell’area dei possibili finanziamenti Bei questi stessi programmi “europei” perché sono destinati alla difesa dell’Unione oltre che degli Stati membri promotori.

Quinto, liberalizzare definitivamente il trasferimento di parti, componenti, apparati e sottosistemi all’interno dell’Unione Europea, con l’unica eccezione dei materiali assoggettati ai massimi livelli di segretezza. La tecnologia informatica e gestionale può consentire oggi una completa tracciabilità della produzione e, quindi, impedire esportazioni illegali o indesiderate verso paesi terzi. Se accompagnato da un accordo che preveda la perdita dell’identità e quindi della responsabilità nazionale nel caso non si superi una determinata soglia sul valore del sistema finale, questa misura darebbe un grande contributo all’efficientamento del sistema industriale europeo e alla sicurezza degli approvvigionamenti.

Come ha ricordato recentemente il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, citando Luigi Einaudi a proposito del rafforzamento dell’integrazione europea, comprendendovi anche la sua sicurezza e difesa: “Il problema non è tra l’indipendenza e l’unione; è tra l’esistere uniti e lo scomparire”.

Cinque ipotesi per rafforzare l’Europa della difesa. Scrive Nones

Aumentare le capacità produttive europee rappresenta la grande sfida dei prossimi anni. Potrebbe essere semplice farlo per munizioni o mezzi terrestri, ma per tutti gli altri sistemi d’arma (velivoli, elicotteri, navi, sistemi missilistici) sarà necessario non solo potenziare gli impianti di integrazione e assemblaggio, ma anche coinvolgere tutta la lunga catena dei fornitori. Il commento di Michele Nones, vicepresidente dello Iai

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