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Fedele ascoltatore di Joan Sebastian Bach, il professor Antoine Courban, preside di un  dipartimento della facoltà di medicina dell’Università dei gesuiti di Beirut, Saint Joseph University, della quale dirige la pubblicazione Travaux et Jours, non può che fare come tutti i suoi connazionali: aspettare venerdì pomeriggio, quando Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, la milizia khomeinista che controlla il Libano e che ha espropriato quel Paese del diritto ad avere una sua politica nazionale di difesa, ha annunciato al mondo che parlerà della guerra in atto.

L’annuncio è stato dato domenica pomeriggio, con l’evidente intenzione di creare una lunga suspence globale. Cosa potrà dire venerdì pomeriggio l’uomo dal quale dipende la possibile estensione regionale del conflitto? Questo punto interrogativo prolungato aumenta il peso  delle sue parole, considerato che dal 7 ottobre scorso lui tace! Se la sua milizia decidesse di attaccare le grandi città israeliane con la potenza che tutti le riconoscono non sarebbe coinvolto solo il Libano, ma anche tutte le altre milizie khomeiniste alleate in Iraq e Siria, e con ogni probabilità lo stesso Iran, creatore e padrone di tutte queste forze miliziane. Mentre ascolto il professore parlare con la sua solita  pacatezza, capisco che la prima evidenza è la pressione psicologica esercitata grazie al grande anticipo con cui Nasrallah ha annunciato il suo discorso. Sentire da Beirut una voce assai tranquilla e più riflessiva della mia, mentre  mi aggiorna su come si sopravviva oggi nella sua disastrata città, mi aiuta a riflettere: il nostro modo di attendere il suo discorso, con l’ansia di chi ritiene che se vorrà  potrà annunciarci a che ora arriverà l’Apocalisse ne fa in pieno il gioco, rendendolo qualcosa che dobbiamo definire “Dio in terra”. È questo il motivo della sua scelta di annunciare che “parlerà”. Dio parlerà venerdì, nel primo pomeriggio.

Cosi lascio l’attualità e seguo il discorso del grande accademico libanese, un cristiano ortodosso che ben conosce e ammira Francesco, e scopro che nella sua mente c’è Evagrio Pontico (345-399 d.C.) , il grande asceta seguace di Origene che visse nel deserto egiziano facendo l’amanuense fino alla morte. Me ne parla riferendosi alla recensione che sta per pubblicare sul prestigioso L’Orient Litteraire  del nuovo libro del suo amico Amin Maalouf, il libanese eletto or ora segretario dell’Accademia francese. Il volume si intitola “Le labyrinthe des égarés: L’Occident et ses adversaires” (Il labirinto degli smarriti: l’Occidente e i suoi avversari). Evagrio Pontico redasse la cartella clinica dell’uomo che vuole sostituire Dio, (dunque per me la cartella clinica di Nasrallah): quest’uomo che vuole sostituirsi a Dio, scopriva Evagrio Pontico, è affetto da una brutta malattia, la Philautia, parola greca che possiamo tradurre con “eccessivo amore di sé” e che Courban nella sua recensione del libro di Maalouf definisce così: “La prima, la più grave e la più formidabile delle malattie della mente. Philautia è un’autoindulgenza viziosa e smodata. Va ben oltre il volgare narcisismo psicopatologico o l’egoismo ombelicale, perché è soprattutto consapevole e razionale. Sfrutta le facoltà più nobili della mente: intelligenza e volontà. Il male non può nulla senza il libero arbitrio dell’uomo”. Il discorso di Courban si allarga: “L’antropologia culturale riconosce nella versione occidentale della Philautia , una cieca adesione alla cosiddetta Ragione universale ma che è, in ultima analisi, giudice e parte, sentenza senza appello e memoria vincolante, carica di implicite minacce”. Dunque il suo discorso ci porta all’’Hybris umana che gli sembra rimanere inseparabile dal suo alter ego, la  Nemesis o vendetta che si scatena contro chiunque superi i limiti di ciò che è umanamente possibile.

Mi parla da un appartamento a pochi passi dal bunker di colui che, con le sue decisioni, può portare a bombardamenti della sua città, ma rimane sereno, anzi, mi invita per capire meglio la complessità a tornare sulle carte di Francesco, soprattutto su “Gaudete et exultate”, dove per lui il papa fotografa proprio quest’uomo che vuole sostituirsi a Dio, ma questa volta in Occidente. Se mi sono formato il convincimento che Nasrallah è afflitto dalla Philautia, ora vengo costretto a ricordarmi che è all’opera nell’Occidente cristiano il  pelagianesimo prometeico che proclama la salvezza attraverso le opere dell’uomo e lo gnosticismo faustiano che insegna la salvezza attraverso la conoscenza. È questo che Francesco ci ricorda in “Gaudete et exultate”. Sono le due malattie che ci portano a voler sostituire Dio, tanto nei rapporti umani che in quelli con la natura. Devo soffermarmi: questo tempo presente non ci conferma che ci siamo convinti che possa esservi una salvezza senza un salvatore, costruita nel nostro dominio sul prossimo con il quale viviamo e sull’ambiente nel quale viviamo?

Il professor Antoine Courban mi deve salutare, deve andare a fare la spesa, un’avventura nella Beirut d’oggi, dove il governo annuncia come fosse un trionfo che se i negozi non sono vuoti e gli ospedali non risultano esaurite le medicine: dunque in caso di attacco aereo su Beirut ci si potrà curare.

Così dopo averlo salutato  cresce in me un’idea: Nasrallah venerdì farà commemorazioni roboanti dei suoi 60 martiri, caduti dal 7 ottobre – secondo il suo linguaggio – sulla via di Gerusalemme. Tutti i suoi capiranno che grazie a lui l’Ora dell’Apocalisse ha cominciato a scoccare allora, e questo gli consentirà di pensare che ha sostituito Dio senza dover annunciare un’ulteriore sviluppo della guerra apocalittica. Dunque venerdì potrebbe anteporre l’annuncio dell’Ora apocalittica al 7 ottobre senza doverne annunciare una nuova. Forse.

Ma così pensando mi rendo conto che dal 2001 noi cadiamo nella trappola prometeica di credere nella salvezza tramite noi stessi e la nostra forza. E ritrovo quanto disse il  pluridecorato eroe della seconda guerra mondiale, studioso della storia militare, Michel Howard quando pronunciò un discorso che ebbe molto rilievo il 30 ottobre 2001, a Londra. Per lui il desiderio di immediate e decisive azioni dopo l’11 settembre rischiava di creare una “psicosi bellica totalmente controproducente per gli obiettivi perseguiti. La qualità che serve in una seria campagna anti terrorismo – segretezza, intelligence, sagacia politica, quieta spietatezza, azioni coperte e infinita pazienza – spariscono nell’ansia mediatica di risultati immediati”.

La battaglia, osservò Michel Howard, però doveva essere per i cuori e le menti: se  innocenti civili fossero colpiti nel calore della risposta, l’atrocità d’origine sarebbe presto dimenticata “rafforzando l’odio e le reclute dei terroristi, seminando intanto dubbi nelle menti dei sostenitori dell’America”. Ricordando che l’impero britannico gestì molte emergenze del genere – dalla Malesia a Cipro all’Irlanda – ricordò che mai ricorse al termine “guerra”, ma a quello “emergenze”. La differenza sta, spiegò, negli strumenti che venivano impiegati: non l’esercito, ma la polizia e l’intelligence, che sebbene rafforzati e dotati di poteri speciali restarono sempre nella cornice dell’autorità civile. Dunque, tornando alla conquista dei cuori e delle menti, sostenne la tesi che l’obiettivo di fondo  era isolare i terroristi, non dargli la legittimazione di “combattenti”, ma ricondurli a quello che li si ritiene, criminali.

Così mi rendo conto che la verità che emerge a mio avviso sta in una frase di Francesco che in questi giorni andrebbe ricordata: “Nessuno si salva da solo”. Forse, per dirglielo, richiamerò il professor Courban venerdì, ma soltanto nel tardo pomeriggio.

Dio parla venerdì, alle 15 (parola di Nasrallah)

Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, la milizia khomeinista che controlla il Libano e che ha espropriato quel Paese del diritto ad avere una sua politica nazionale di difesa, ha annunciato al mondo che parlerà della guerra in atto. L’annuncio è stato dato domenica pomeriggio, con l’evidente intenzione di creare una lunga suspence globale

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