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Pnrr, il tempo stringe ma l’Italia ce la può fare. Parla Scicolone (Oice)

Scicolone

Intervista al presidente di Oice, l’associazione aderente a Confindustria che rappresenta le società di ingegneria, architettura e progettazione, Gabriele Scicolone: “L’orizzonte al 2026 non è così lontano, è vero, ma non è neppure dietro l’angolo. Abbiamo la possibilità di rimettere in pista le cose, a patto però di muoverci adesso”. Ma in che modo?

Nulla è perduto, ma certo occorre ingranare la marcia e avviare il prima possibile la progettazione delle opere pubbliche previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza così da potersi poi concentrare sulle attività di realizzazione vere e proprie. Il pericolo, altrimenti, è di andare lunghi o, comunque, di non riuscire a garantire al Paese la qualità necessaria. Anche perché, com’è noto, nel sistema italiano degli appalti pubblici le inefficienze e i colli di bottiglia non mancano.

Ma cosa occorre fare per accelerare il processo di realizzazione dei numerosissimi interventi piccoli e grandi previsti dal Pnrr? Quali correttivi all’attuale disciplina mettere in campo? E come riorganizzare in un’ottica di ampio respiro la normativa di settore? Formiche.net lo ha chiesto al presidente di Oice, l’associazione aderente a Confindustria che rappresenta le società di ingegneria, architettura e progettazione, Gabriele Scicolone.

Siamo già in ritardo?

La preoccupazione c’è, ma, come ha detto recentemente a Formiche.net il vicepresidente di Ance Edoardo Bianchi, sono anche convinto che siamo ancora in tempo per farcela. L’orizzonte al 2026 non è così lontano, è vero, ma non è neppure dietro l’angolo. Abbiamo la possibilità di rimettere in pista le cose, a patto però di muoverci adesso.

Ma su quali aspetti in particolare dobbiamo tenere più alta l’attenzione?

Quando ci riferiamo al ruolo assegnato dal Piano nazionale di ripresa e resilienza alle opere pubbliche, occorre fare alcune precisazioni. Innanzitutto va ricordato l’ammontare complessivo previsto per questo ambito: si tratta di più di 90 miliardi di progetti, di cui 60 circa sono destinati alle infrastrutture ferroviarie. Ecco, su queste ultime possiamo stare tranquilli, considerato che stiamo parlando di una stazione appaltante di primaria grandezza e importanza.

Quindi il problema potrebbe porsi sugli altri 30 miliardi, è così?

Certamente, almeno su una parte rilevante di quelle risorse. Nel senso che nel Pnrr c’è una miriade di piccoli e medi progetti, anche di rigenerazione urbana, di manutenzione dell’esistente e di messa in sicurezza del territorio, che sono fondamentali per le nostre imprese e per il Paese nel suo complesso. Interventi decisivi per il successo del Pnrr, ma parcellizzati tra un’infinità di stazioni appaltanti, sui quali bisogna fare attenzione perché oggettivamente qualche rischio c’è.

Quale rischio?

Il rischio di non fare in tempo e di non fare bene. Ma attenzione: stiamo parlando di ritardi ancora contenuti, come dicevamo. Non è già il momento di gridare all’emergenza, ma certo bisogna ingranare la marcia,

In che modo?

L’importante è che il 2022 sia consacrato alle gare e agli affidamenti, cosicché il 2023 possa essere l’anno delle progettazioni e quelli a seguire gli anni dei lavori e delle realizzazioni. Questo cronoprogramma potrebbe avere un senso, direi.

Da rispettare, come propongono i costruttori, anche ricorrendo al cosiddetto appalto integrato, ovvero un unico contratto con cui chiamare l’impresa non solo a effettuare i lavori ma pure a realizzare o integrare il progetto?

No, su questo non sono affatto d’accordo. I tempi non sono così critici da giustificare una misura di questo tipo. E poi, se anche si decidesse in alcuni casi specifici di consentirvi il ricorso, chiediamo che ciò avvenga sempre sui progetti definitivi e mai sui preliminari, in modo che il progettista possa svolgere la sua attività intellettuale e professionale. Ma non solo.

Ovvero?

Crediamo sia condizione fondamentale, nel caso, che si preveda il pagamento dei progettisti direttamente da parte della stazione appaltante. Nell’ipotesi opposta, se cioè la prestazione economica fosse appannaggio dell’impresa di costruzione, rischieremmo di minare l’autonomia e l’indipendenza degli ingegneri e dei progettisti. E ciò, vista la rilevanza della nostra attività, non potremmo accettarlo.

Ma la sostituzione delle gare con le procedure negoziate è un fenomeno che si estende pure alla progettazione oppure è limitato agli appalti di lavori pubblici?

Vale anche per le progettazioni, come Oice ha rilevato qualche giorno fa con il suo osservatorio: si fanno poche gare, perché è stato innalzato il sotto-soglia. Prima si mandavano a gara le progettazioni di importo superiore a 75.000 euro mentre ora è previsto che ci si vada da 139.000 in su. Vuol dire che tantissimi progetti in più ora vanno in affidamento, con evidenti ripercussioni in termini sia di trasparenza che di concorrenza.

Perché a suo avviso, Scicolone, si tende sempre a intervenire sulle gare? È stato di fatto dimostrato che l’allungamento dei tempi non dipende tanto da quella fase. 

Non dobbiamo avere paura delle gare, a condizione però di riuscire a fare una sorta di moratoria che ne contingenti la durata. Una previsione in realtà già sancita dal cosiddetto decreto Semplificazioni, che ha fissato la durata delle gare in un lasso di tempo tra i due e i quattro mesi. Con un problema di tutta evidenza però: questo limite non è stato reso cogente. Ergo, le stazioni appaltanti finiscono spesso e volentieri per metterci più tempo.

Voi cosa proponete dunque?

Che quella prescrizione venga resa obbligatoria, quantomeno per i progetti inseriti all’interno del Pnrr. Questo ci aiuterà a rispettare quella tabella di marcia che proponevo all’inizio così da chiudere il tutto entro il 2026.

Ovviamente ciò varrebbe sia per le gare di progettazione che per quelle di lavori, è così? In sostanza andrebbe considerato almeno il doppio del tempo, quindi circa 8 mesi per tutta la fase di gara. 

In pratica sì, in modo da affidare tramite gara prima la progettazione dell’opera e poi successivamente anche la sua realizzazione alle imprese di costruzioni. Sarebbe una durata complessiva coerente con gli obiettivi che il Paese si è prefisso e che deve perseguire.

Scusi Scicolone, ma dunque lei sostiene che l’appalto integrato non serva per le piccole opere ma che al più vi si possa ricorrere solo per le più grandi?

Esattamente, ne sono convinto. Al massimo per le grandissime opere ad alto contenuto tecnologico e alla condizione che in appalto integrato ci vada, come dicevamo, il progetto definitivo e non il preliminare, con il progettista pagato direttamente dalla stazione appaltante.

E arriviamo al tema del nuovo codice degli appalti il cui iter di approvazione è iniziato con l’esame della legge delega al Senato. Dobbiamo preoccuparci che gran parte delle opere del Pnrr debba essere realizzata con le attuali regole?

Per la roadmap che è stata dettata dal governo, mi pare che sia inevitabile. E’ inutile pensare che possa non essere così. Se tutto va bene, il codice vedrà la luce non prima della metà del 2023 quando gli affidamenti, c’è davvero da sperarlo se vogliamo arrivare in tempo alla scadenza del 2026, saranno stati già tutti effettuati.

Quindi, giusto per essere chiari, il nuovo codice deve essere approvato a prescindere dal Pnrr?

Ne serve uno nuovo perché la storia non finisce nel 2026, alla conclusione del Recovery Fund. Anzi, l’Italia ha bisogno di programmare anche oltre il  Pnrr e il codice degli appalti rappresenta una delle chiavi per provare a farlo con successo.

Da questo punto di vista cosa ne pensa della legge delega in discussione in Commissione al Senato?

Ritengo che i criteri contenuti nella delega siano pienamente condivisibili. Si tratterà poi di capire come verranno attuati e poi realizzati concretamente considerato che erano già quasi tutti previsti nella legge sulla base della quale è stato poi approvato il codice del 2016.

Che poi appunto ha di fatto fallito. Perché a suo avviso Scicolone?

Direi non tanto per i suoi contenuti, quanto per la sua incompiutezza sotto il profilo applicativo. Per essere molto chiari: la cosiddetta soft law dell’Anac chiaramente non ha funzionato, mentre i decreti di attuazione sono andati a dir poco a rilento. Come si fa a prevedere che una normativa per trovare piena applicazione abbia bisogno di 53 decreti attuativi? Era impossibile che funzionasse.

E allora cosa occorre fare adesso?

Prevedere un regolamento unico di attuazione, almeno si fa lo sforzo una volta sola.

Ma si deve andare, a suo avviso, su un regolamento valido per lavori, servizi e forniture oppure sarebbe giusto procedere con due distinti provvedimenti il primo dei quali dedicato ai lavori e il secondo a servizi e forniture?

La seconda alternativa, sul modello della vecchia legge Merloni, credo sia la migliore. Si tratta pur sempre di attività molto diverse: prevedere le stesse identiche regole rischia solamente di portare alla creazione di un sistema meno chiaro e meno efficiente per tutti.



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