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Le forze aeree della Cina e degli Emirati Arabi Uniti condurranno un’esercitazione militare congiunta nella regione autonoma uigura dello Xinjiang, nella Cina nord-occidentale, ad agosto, ha annunciato lunedì il ministero della Difesa Nazionale di Pechino. Secondo i cinesi, l’esercitazione, che si chiamerà “Falcon Shield-2023”, sarà il primo addestramento congiunto tra le forze aeree delle due nazioni. L’obiettivo: approfondire gli scambi pragmatici e la cooperazione tra i due settori militari e “migliorare la comprensione e la fiducia reciproca”, spiega la Xinhua riprendendo il ministero.

Ossia: gli emiratini condurranno manovre militari sopra il territorio dove vivono le minoranze musulmane vessate dalla campagne di rieducazione organizzate dal Partito Comunista Cinese. Ufficialmente definiti “Centri di istruzione e formazione professionale” sono campi di internamento gestiti dal governo della regione autonoma dello Xinjiang secondo la politica avviata nel 2014 per controllare la sicurezza della regione. L’area è stata oggetto di istanze separatiste e islamiche radicali, e per questo Pechino ha avviato azioni per cambiare “cuori e menti” degli uiguri che la vivono insieme ad altre minoranze musulmane.

Narrazioni e interessi

L’attività con cui il Partito/Stato intende trasformare quei musulmani in “bravi cinesi”, attraverso lavori forzati e lavaggi del cervello politico-culturali, è stata definita “genocidio” dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali – la definizione esatta è “genocidio culturale degli uiguri”. I metodi di reclusione sono arbitrari, vengono usate tecniche di polizia predittiva – persone incarcerate perché il loro profilo corrisponde a quello di un potenziale islamico radicale – e non ci sono forme di processo. Pechino nega, la definisce “la bufale del secolo” e rivendica attività di anti-terrorismo e tutela della sicurezza nazionale.

All’opposto di quanto sostenuto da quei Paesi occidentali e da diverse organizzazioni per i diritti umani che hanno attirato anche il coinvolgimento delle Nazioni Unite (i cui esperti valutano che tra 1 e 3 milioni di cinesi siano stati rinchiusi nei campi di rieducazione), 37 Stati avrebbero firmato una dichiarazione congiunta a sostegno della Cina. Tra chi ha espresso approvazione per il “programma antiterrorismo” cinese nello Xinjiang, ci sono Algeria, Repubblica Democratica del Congo, Russia, Arabia Saudita, Siria, Pakistan, Corea del Nord, Egitto, Nigeria, Filippine, Sudan e appunto gli Emirati Arabi Uniti – ma la lettera, preparata pochi giorni dopo una richiesta di condanna all’Onu nel 2019, non è mai stata mostrata al pubblico.

Difese e pragmatismo

La vicenda degli uiguri è uno dei paradigmi che marca la distanza tra l’approccio occidentale agli affari internazionali, anche quando riguardano equilibri interni ai singoli Paesi, e altre parti di mondo. Teoricamente, Paesi come Arabia Saudita, Egitto o gli stessi Emirati dovrebbero essere in prima linea nella condanna delle azioni contro i musulmani – in Cina, come ovunque. Ma si approcciano a certe questioni con grande pragmatismo: primo, sanno cosa significa il contrasto al terrorismo, e hanno vissuto già stagioni in cui è servito il pugno duro e scarsa discriminazione dei bersagli; secondo, non apprezzano interferenze all’interno dei proprio affari e per questo evitano esposizioni su quelle degli altri; terzo, trovano nella Cina un grande partner commerciale e non vogliono indispettire un Paese che ha un seggio permanente alle Nazioni Unite (dunque può essere politicamente prezioso). Davanti a tali circostanze, tutto scorre regolarmente, ma d’altronde anche la difesa delle istanze palestinesi ha preso una via meno ideologica, simbolica e più pragmatica.

Interesse militare

L’esercitazione congiunta nel suo specifico è anche uno sviluppo naturale dopo che Abu Dhabi ha acquistato aerei militari cinesi all’inizio di quest’anno. A febbraio, la Cina ha annunciato di aver siglato un accordo per esportare il jet addestratore avanzato L15, che sarebbe stato sviluppato a livello nazionale negli Emirati Arabi Uniti. Nel 2022, il ministero della Difesa degli Emirati Arabi Uniti aveva resa nota l’intenzione di acquistare dodici L15 dalla Cina, con l’opzione per 36 aerei aggiuntivi dello stesso tipo in futuro.

Gli L15 appartengano alla nuova generazioni di velivoli da addestramento, e possono essere utilizzati per addestrare i piloti per jet da combattimento di quarta e quinta generazione, oppure possono anche svolgere missioni di combattimento aria-aria e di attacco terrestre. E questo è un altro argomento da aggiungere non tanto alle ragioni pragmatiche riguardo allo Xinjiang, ma a quelle sul rapporto generale con la Cina. Mentre i legami militari tra la Cina e gli Emirati Arabi Uniti continuano a svilupparsi, potrebbero esserci più esercitazioni congiunte e accordi sulle armi, perché Abu Dhabi e non solo ricorrono ormai alle forniture cinesi – anche per sviare le politiche etiche di altri produttori occidentali (come quelli americani). Per esempio, gli Emirati hanno scelto di non far (più) parte del programma F-35 (i migliori aerei da guerra in commercio) per avere meno pressioni politiche (dagli Usa) e mani più libere per lavorare con la Cina. 

In futuro, le forze aeree cinesi potrebbero essere invitate in Medio Oriente per altre esercitazioni, in un territorio dove fino a questo momento è stato predominante il ruolo di Washington (e alleati) e pressoché inesistente quello di Pechino. “La Cina non sta progettando di colmare il cosiddetto vuoto di potere lasciato dagli Stati Uniti in Medio Oriente, ma sta rafforzando la cooperazione con i paesi della regione, rispettando il loro sviluppo indipendente e contribuendo a salvaguardare la pace e la stabilità regionali”, fa notare un analista cinese al Global Times.

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