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L’accusa che l’India sia coinvolta nell’assassinio di un cittadino canadese di origine indiana in territorio canadese fa entrare la nazione più popolosa del mondo in una dubbia lista di Paesi sospettati di compiere omicidi politici (la vittima era un attivista sikh khalistani) al di fuori dei propri confini. Quello mosso dal governo di Justin Trudeau è un addebito pesante quindi, di quelli che teoricamente potrebbero cambiare relazioni e dinamiche. Ma l’India è un Paese che nel corso degli ultimi anni ha acquisito una centralità crescente, con un ruolo di potenza emergente in grado di essere contraltare alla Cina; è un’economia in sviluppo che attira sempre più interessi; ha un posizionamento geostrategico corteggiato dai principali Paesi occidentali.

Tuttavia resta che se la notizia fosse confermata, l’India si unirebbe alla Russia, all’Arabia Saudita, all’Iran e ad altri Paesi che negli ultimi anni sono stati accusati di aver pianificato attacchi letali all’estero contro avversari percepiti come tali, compresi i propri cittadini, secondo i funzionari e gli esperti di sicurezza occidentali. Questi Stati fanno parte di un gruppo ancora più ampio, tra cui la Cina, che è ampiamente sospettata di impiegare i propri servizi di sicurezza in operazioni di sorveglianza, campagne di intimidazione e persino rapimenti sul territorio di altri Paesi.

La vicenda

La Canadian Broadcasting Corporation (CBC), la rete televisiva pubblica del Canada, ha annunciato che il governo canadese possiede prove che suggeriscono il coinvolgimento di agenti del Research and Analysis Wing (Raw), i servizi segreti indiani, nell’omicidio di Hardeep Singh Nijjar, un influente leader della comunità sikh canadese, avvenuto tre mesi fa. Fonti anonime del governo canadese hanno rivelato alla CBC che i servizi di intelligence del Paese hanno raccolto prove per un mese, inclusi dialoghi tra rappresentanti canadesi e diplomatici indiani, che non hanno negato le accuse in incontri privati. Tuttavia, al momento, non ci sono conferme indipendenti di queste affermazioni, quindi è necessario trattarle con cautela.

In precedenza, il primo ministro canadese Trudeau aveva sollevato l’ipotesi di un coinvolgimento del governo indiano nell’omicidio di Nijjar durante un discorso in parlamento. Hardeep Singh Nijjar era noto nella Columbia britannica, attivista di una comunità che in Canada ha 770mila persone censite con figure importanti entrate nel governo e nella leadership politica nazionale (per esempio, Jagmeet Singh è il leader del Nuovo Partito democratico). Nijjar era un sostenitore del movimento per l’istituzione del Khalistan, uno Stato a maggioranza sikh, nella regione del Punjab, tra Pakistan e India. I khalistani, separatisti che hanno anche intrapreso forme di rivendicazione violenta, sono considerati uno dei principali problemi di sicurezza nazionale indiana.

New Delhi ha pubblicamente respinto l’accusa, definendola “assurda” e reagito sospendendo il rilascio dei visti ai cittadini canadesi. Nijjar è stato assassinato il 18 giugno a Surrey, una cittadina nei pressi di Vancouver, dove la comunità sikh è significativamente grande. La polizia aveva riferito che era stato attaccato da un gruppo di uomini mascherati mentre usciva in auto dal parcheggio di un tempio sikh.

Valutare la risposta americana

C’è un’ampia corrente di pensiero che considera ormai l’India un membro de facto del G7, gruppo dove l’espulsione della Russia ha aperto uno spazio per un Paese teoricamente like-minded (soprattutto se così interessante). L’idea di invitarlo al prossimo summit italiano, anche se senza formalizzazione ulteriore, circola da parecchio in alcuni corridoi, anche nostrani (soprattutto dopo l’elevazione delle relazioni a partnership strategica). La bega in piedi con il Canada (altro membro del gruppo) rischia di complicare l’organizzazione. Anche se c’è tempo: e c’è soprattutto un’agenda di priorità strategiche che potrebbero marginalizzare anche queste scabrose contingenze.

La reazione degli Stati Uniti alle accuse del Canada contro l’India riflette la posizione contrastante di Washington sulla questione, ma soprattutto è un benchmark. L’India è un gigante con cui gli Stati Uniti vivono una fase eccellente delle relazioni e che ritengono uno straordinario contraltare all’espansione cinese (anche considerando le relazioni tese tra New Delhi e Pechino). Il Canada è un alleato fraterno, gigantesco satellite americano e dunque Paese paradigma per tutti gli alleati. A questo contesto generale va aggiunto lo specifico atteggiamento dell’amministrazione Biden: il presidente democratico ha sin dall’inizio del suo mandato caratterizzato le relazioni internazionali con le visioni su diritti e valori democratici, marcando ancora di più un atteggiamento storico nella narrazione della politica internazionale statunitense. Dunque non può tirarsi indietro da tale linea in questo momento: il rischio è perdere coerenza, quindi voti in vista di Usa2024. Ma allo stesso tempo non può essere eccessivamente severo, perché il rischio è perdere grip con l’India, dunque capacità di moltiplicazione strategica, e essere accusato dagli avversari politici di dare più valore alla propria ideologia rispetto agli interessi di lunga gotta statunitensi. Tanto più con i conservatori ormai dominati dalla linea pragmatico-trumpista e portati a devalorizzare radici storiche comuni (per quanto a tratti incoerenti) del pensiero americano.

Attenzione alle dichiarazioni dunque. L’ambasciatore americano in Canada, a proposito delle accuse ha detto che “c’era un’intelligence condivisa tra i partner di Five Eyes che ha contribuito a portare il Canada a fare le dichiarazioni rilasciate dal primo ministro”. Questo significa che l’India è sotto controllo speciale, che gli americani erano informati e hanno collaborato con i canadesi. Ma anche che la vicenda poteva essere gestita a livello non pubblico e non parlamentare? Le parole più significative, come spesso accade, le ha pronunciate il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan: “Non esiste alcuna esenzione speciale per azioni come questa”. In sostanza, stava dicendo che l’India non dovrebbe ottenere un lasciapassare gratuito, cosa che raramente si sente dire in pubblico da parte di funzionari statunitensi a proposito di New Delhi — su cui pesano varie considerazioni a proposito del processo di contrazione della democrazia innescato dal governo Modi e dei suoi provvedimenti discriminatori.

La repressione transnazionale

Come prova della crescente percezione delle operazioni extragiudiziali ed extraterritoriali, organizzazioni internazionali e gruppi per i diritti umani hanno introdotto il termine “repressione transnazionale”, con cui descrivere le diverse forme e le intenzioni dei governi coinvolti. Secondo funzionari occidentali ed esperti di sicurezza, questo fenomeno è alimentato da varie forze, che vanno dall’ascesa dell’autoritarismo in molti Paesi alla diffusione delle tecnologie che consentono ai governi repressivi di monitorare e colpire i dissidenti all’estero.

Daniel Benjamin, ex funzionario del dipartimento di Stato per l’antiterrorismo e attuale direttore dell’American Academy di Berlino, ha detto al Washington Post che c’è preoccupazione riguardo all’aumento del numero di governi che ricorrono alla violenza extraterritoriale, aggiungendo che il declino della Comunità internazionale ha contribuito all’emergere di Stati disposti a usare la forza, a correre rischi e a violare le norme.

Tuttavia, fonti diplomatiche hanno spiegato a Formiche.net che pochi si aspettano che l’India subirà misure significative, né da parte dei governi occidentali, né tanto meno dalle Nazioni Unite. All’Onu, New Delhi potrebbe trovare il sostegno di una fitta serie di Paesi come la Russia, le nazioni del Golfo e persino la Cina, che insistono nel non voler interferire nelle questioni interne altrui per ragioni ideologiche (come i diritti e i valori democratici vengono considerati da essi). Elevare la questione in ambito onusiano è visto un errore, un potenziale boomerang.

Molto dipenderà da come l’amministrazione Biden bilancerà la sua reazione, si diceva. Per gli Stati Uniti non è una novità, recentemente hanno affrontato per esempio nel caso dell’omicidio di Jamal Khashoggi e i rapporti con l’alleato saudita ne hanno risentito, ma non sono stati interrotti e/o compromessi — e anzi adesso Riad è un tassello fondamentale di un enorme progetto geopolitico che coinvolge anche l’India (l’Imec). Da questo bilanciamento americano dipenderà anche il comportamento degli alleati, in primis gli europei, ma non solo. Il Giappone si sta già muovendo: Tokyo non ha accettato un suggerimento (canadese) di sollevare la questione dell’uccisione del separatista khalistani Nijjar alla riunione dei ministri degli esteri del Quad. La partnership con l’India è troppo importante. Lo stesso Canada vuole tenere il punto, anche a livello ideologico, ma mantenere le partnership con l’India nell’Indo Pacifico. Ma quanto accaduto in Canada serve anche a mandare un messaggio al governo di New Delhi — che il prossimo anno cercherà conferma alle elezioni generali.

India-Canada, la partnership strategica vale più dello scontro diplomatico

Lo scontro diplomatico tra India e Canada, innescato dalla vicenda dell’assassinio di un separatista sikh, probabilmente non intaccherà gli equilibri attorno a New Delhi. Il Subcontinente è un partner troppo importante e c’è una serie di Paesi (per primo gli Stati Uniti) interessati a gestire la situazione con misura e controllo

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