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Pare eccessivo “l’animus buonista” con cui i media stanno bombardando il sentire comune rispetto alla conclusione giudiziaria del caso di Patrick Zaki in Egitto. Intanto, nessuno credo abbia letto le carte del processo e sappia come stanno esattamente le cose. C’è una presunzione generalizzata e rigorosamente insindacabile di comportamento spiccio e brutale della giustizia egiziana, quasi che ogni caso debba essere giudicato con il metro utilizzato per il povero Giulio Regeni. Forse non è così, forse certi garantisti a oltranza di casa nostra dovrebbero usare uguale atteggiamento, dovrebbero concedere il beneficio della verifica a istituzioni di un altro Paese, per quanto pregiudicato e giustamente sospetto possa essere.
In secondo luogo stride fortemente il doppio standard – a essere benevoli – con cui vengono giudicate le diverse fattispecie in materia di rispetto dei diritti umani. Senza andare troppo lontano nel tempo e nello spazio, vediamo il caso Erdogan.

Non più tardi di pochi giorni fa la comunità internazionale non ha battuto ciglio quando la Turchia ha dato luce verde all’ingresso della Svezia nella Nato in cambio, probabilmente, della consegna al tiranno di Ankara di dissidenti curdi rifugiati in territorio svedese. Nulla dai media, nessun commento sul vergognoso patto sottoscritto da Turchia, Svezia e Finlandia che legittimava un bieco baratto tra rispetto dei diritti – tra cui quello basilare di libertà di opinione – e sanzione di accordi internazionali. Con l’aggravante che il carnefice aveva già dato ampia ed incontrovertibile prova della sorte cui i dissidenti, di cui sono piene le prigioni turche, sarebbero andati incontro. A Zaki però la prima pagina di tutti i quotidiani e lo scandalo generale. Per i poveri curdi, nel mirino di una rinnovata ed insidiosa pulizia etnica a più bassa e indefinita intensità, nulla.

I casi di una morale doppio-pesista sono purtroppo numerosi e, nel caso italo-egiziano anche segnati da un irresponsabile masochismo in quanto strettamente connessi all’interesse nazionale. Infatti, con un’ottica anche un po’ ottusa, al fatto che Al Sisi tenga in carcere Zaki si contrappone la circostanza che la nostra industria della difesa abbia in corso una proficua attività di esportazione in Egitto di sistemi d’arma per il suo esercito.

Dimenticando, non solo che le dimensioni dell’interscambio a rischio riguardano anche altre e ben più importanti tipologie di attività, quanto e soprattutto il ruolo dell’Egitto per la nostra sicurezza nazionale in tutta l’area e quanto sia di conseguenza importante tenere questo grande Paese dalla nostra parte, averlo vicino quando un giorno o l’altro il dossier Libia si incamminerà verso una soluzione o quando l’intero continente africano diverrà oggetto di una reale e concreta attenzione occidentale, in virtù dei problemi e delle opportunità che hanno nel sud del Mediterraneo la loro fonte sorgente.

Ora che tutto questo debba essere barattato con la libertà di un cittadino egiziano, che non conosce neppure la nostra lingua, e che nel suo Paese è stato sanzionato per un reato di cui non si conoscono esattamente i capi di accusa e i contorni pare francamente troppo; anche a chi non è in grado di soppesare con oculatezza la giusta rivendicazione del rispetto dei diritti (ovunque viene da aggiungere) e la tutela dell’interesse nazionale.

Il caso Zaki e l’interesse nazionale. L'opinione del gen. Tricarico

Nel giudicare la conclusione del caso giudiziario di Patrick Zaki in Egitto è necessario superare una certa lettura che distingue in due pesi e due misure (per esempio rispetto all’accordo tra Svezia e Turchia sulla pelle dei curdi), oltre a mantenere l’attenzione su quanto invece strettamente connesso all’interesse nazionale. La riflessione del generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa, già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare

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