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Se il miracolo cinese è davvero già finito, e forse lo è per davvero, allora perché non dovrebbe essere altrettanto conclusa la luna di miele tra Wall Street e lo stesso Dragone? Che la Cina sia ormai in piena crisi, industriale o finanziaria fa poca differenza, è noto. Il problema è capire e quantificare gli effetti collaterali di tale avvitamento. Il Wall street journal ne ha raccontato uno. Ovvero, il lento arrestarsi degli scambi e dei flussi di capitale tra la prima Borsa mondiale e la Cina.

Un esempio su tutti è quello di Blackrock, il maggiore asset manager del globo. Il quale, nel 2021, in piena pandemia è diventato il primo veicolo a gestire un’attività di fondi comuni di investimento interamente controllata in Cina, circa un anno dopo che l’amministratore delegato e fondatore, Larry Fink aveva definito il Dragone una grande opportunità per la finanza americana. Due anni dopo, la musica è cambiata, con Blackrock che nella classifica dei fondi che hanno diretti rapporti con la Cina e ne gestiscono parte del patrimonio, è scivolato rovinosamente alla posizione 200.

Colpa di Blackrock? Assolutamente no, semmai colpa di Pechino e dei suoi guai. In quattro parole, del rallentamento della sua economia. Negli ultimi mesi, le transazioni e gli scambi tra molti alfieri della finanza statunitensi e la Cina sono drammaticamente crollate. Questo essenzialmente per due motivi. Il primo, già citato, è che il Dragone se la passa decisamente male, stritolato tra un debito fuori controllo e l’insolvenza del comparto immobiliare. Il secondo è che le stesse aziende cinesi, stanno optando sempre di più per affidare i propri asset a gestori domestici, locali e non certo stranieri, tanto più americani.

E pensare che nel 2020 la stessa Cina ha abolito le restrizioni imposte ai gestori patrimoniali statunitensi che vendevano fondi comuni di investimento agli operatori cinesi. Tanto che l’anno successivo, un altro campione della finanza a stelle e strisce al pari di Blackrock, Goldman Sachs, prese si ritrovò a gestire ingenti quantità di patrimonio cinese. E nel 2022, Morgan Stanley ha aumentato la sua presenza in Cina del 90%. Ma nonostante l’allentamento ufficiale dei vincoli, gli analisti affermano che la Cina non sembra interessata a consentire ad un’azienda americana di prendere davvero piede nel Dragone. Insomma, un bluff bello e buono, che ha sancito il grande freddo tra Wall Street e Pechino.

Tutto questo mentre l’ex Celeste Impero è alle prese con l’ennesimo psicodramma. Per la verità atteso, ma ora che i nodi sono venuti al pettine, l’impressione è che i cinesi siano ancora una volta impreparati. In questi mesi la Pboc, la Banca centrale cinese, ha mantenuto i tassi piuttosto bassi, quando non li ha tagliati (pochi giorni fa il tasso Lpr a un anno, che rappresenta il parametro di riferimento dei tassi più vantaggiosi che le banche possono offrire alle imprese e alle famiglie, è stato ridotto dal 3,55% al 3,45%). Questo essenzialmente per due motivi. Primo, consentire l’apporto di una maggior quantità di denaro nell’economia, per permettere di superare lo stallo della deflazione e rimettere in moto i prezzi, spingendo il potere d’acquisto dei cinesi e i consumi. Secondo, il vero motivo, tentare di ammorbidire ulteriormente la concessione di mutui, nella speranza di rianimare il settore immobiliare, che ancora oggi vale un terzo del Pil del Dragone.

Tutto molto giusto se non ci fossero di mezzo le banche. Sì, perché tenere fermi i tassi vuol dire anche comprimere i margini di un istituto che, si sa, guadagna sul costo del denaro prestato. Ed ecco il rovescio della medaglia, tentare si salvare mattone e consumi può voler dire mandare in malora parte del sistema finanziario. Le banche stesse se ne sono accorte, non facendo mancare il loro malumore. Come a dire, perché il sacrificio, se così lo si può chiamare, deve essere solo a carico degli istituti?

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