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Al di là della vicenda specifica, la legittimità dei dazi imposti da Donald Trump, la decisione del Cit (Court of International Trade) di New York rischia di avere ripercussioni profonde sulla politica americana. Sul piano legale sarà prima la Corte d’appello federale, quindi nel caso la Corte Suprema, a dirimere la controversia. Ma già da oggi risultano evidenti le contraddizioni che hanno segnato l’intera vicenda. Contraddizioni che attengono sia alla politica economica che agli assetti democratici di un Paese che ha nel check and balance il suo Dna democratico.

Sul piano della politica economica il pretesto avanzato da Trump e sostenuto con forza dai suoi consiglieri – soprattutto Peter Navarro – ha mostrato facilmente la corda. Le motivazioni dell’Amministrazione erano state quelle legate ad una situazione di emergenza. Sulla base di questo presupposto l’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa) del 1977 consentiva al Presidente di emettere degli “ordini esecutivi” in grado di bypassare le decisioni del Congresso. Insomma: qualcosa di simile ai decreti legge dell’esperienza italiana. Ma senza l’obbligo della successiva ratifica parlamentare. Con gli unici vincoli rappresentati dalla ratione materiae (il commercio internazionale) e l’esistenza di una minaccia insolita e straordinaria per gli Stati Uniti che avesse origine al di fuori del territorio nazionale.

Si deve solo aggiungere che il Cit è un tribunale speciale. Si occupa cioè solo di commercio internazionale. Ha, in altre parole, un’esperienza e un’autorevolezza che lo mette al riparo da qualsiasi contestazione. Circostanza che spiega l’unanimità del verdetto emesso da tre giudici aventi caratteristiche completamente diverse e punti di riferimento politici diametralmente opposti: Gary Katzmann, nominato da Obama; Jane Restani, nominata da Reagan e Timothy Reif, nominato dallo stesso Trump. Ma tutti insieme costretti a verificare se la situazione d’emergenza, evocata da Trump per applicare il Ieepa, fosse reale. Tesi quanto mai difficile da dimostrare.

Gli Stati Uniti hanno avuto un deficit ininterrotto delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, che data dal 1980. Uniche eccezioni il biennio 1980/81 e dieci anni dopo. Esso era costituito da un deficit commerciale ancora maggiore, ed un surplus, seppur limitato, nel campo dei servizi e dei redditi primati. Il massimo della sofferenza si era registrata nel 2006 quando il deficit aveva raggiunto il 5,9% del Pil. Gli ultimi dati, relativi all’anno trascorso, indicano un deficit del 3,9%. Che, secondo le previsioni del Fondo monetario dovrebbe ridursi fino a raggiungere nel 2030 il 2,4% del Pil.

Che si tratti di un’anomalia rispetto ai normali standard internazionale è del tutto evidente. In tutti gli altri casi un deficit così persistente delle partite correnti della bilancia dei pagamenti avrebbe comportato una progressiva svalutazione della propria moneta, fino a raggiungere l’orlo del default. Per evitare il quale, i singoli Paesi sarebbero stati costretti a dolorose manovre di contenimento. Ricorrendo a varie forme di austerity. Cure che gli Stati Uniti hanno potuto evitare essendo il dollaro moneta universale. Destinata quindi non solo a sostenere il commercio estero americano, ma a supportare l’intero sistema degli scambi internazionali e garantire l’accumulo di riserva valutarie da parte dell’estero. Rispetto ai vantaggi conseguiti il prezzo pagato è stato modesto. La progressiva delocalizzazione delle produzioni old economy, compensata, tuttavia, dalla crescita dei settori di punta delle nuove tecnologie. A partire dall’AI (Artificial Intelligence).

Se questa è l’analisi sottesa alle decisioni del Cit, ne derivano alcune conseguenze. La prima innanzitutto riguarda proprio la natura della crisi americana. Che è reale. Basti pensare alle previsioni del Cbo (Congressional Budget Office) che paventano uno squilibrio tale dei conti pubblici (deficit di bilancio e debito) da far temere una sindrome argentina. Proiezioni destinate a rendere velleitaria ogni ipotesi di riduzione del carico fiscale, senza adeguate coperture finanziarie. Ipotesi che rappresentano il cuore della trumpeconomic. Al punto che la stessa politica dei dazi era finalizzata a trovare maggiori entrate – a carico degli esportatori esteri – per consentire la quadratura del cerchio.

Finora di tutto ciò si è discusso poco negli States. Ma se alla fine la pratica fosse rimessa al Congresso, dopo aver negato al Presidente di poter disporre in solitaria dell’argomento, sarà inevitabile una discussione più approfondita. Che non potrà non allargarsi fino all’individuazione delle possibili responsabilità. Non si dimentichi infatti che la Global Financial Crises del 2008, cui si deve l’inizio di quel subbuglio che ha modificato le carte geopolitiche del Mondo intero (compreso gli Stati Uniti), si svolse interamente sotto la Presidenza, non certo brillante, di George W. Bush, (gennaio 2001/2009). Basti pensare alla sua politica mediorientale contro Saddam Hussein in Iraq, e Gheddafi in Libia. Circostanza che porterebbe a dire che i Repubblicani, in prospettiva, hanno ben poco da guadagnare.

Per cui lo stesso Trump avrebbe dovuto, forse, agire con maggiore prudenza. Invece di lanciarsi, moderno Don Chisciotte, contro i mulini a vento di presunti nemici, che invece sono stati da sempre amici del suo Paese. Ed abbracciare quei nemici storici che invece puntano solo ad una rivincita contro i duri verdetti del ‘900. Finora gli ordini esecuti firmati rappresentano già un record sia rispetto ai suoi predecessori che al suo precedente mandato. Durante la sola luna di miele, hanno raggiunto quota 145: un numero ben più alto della somma degli ordini esecutivi promulgati da Obama e Bush, complessivamente, durante i loro secondi mandati.

Numerose poi le revoche e le abrogazioni di precedenti disposizioni: 97 ordini esecutivi di Joe Biden, due azioni esecutive promulgate da John F. Kennedy e Lyndon Johnson – presidenti rispettivamente tra il 1961 e il 1963 e tra il 1963 e il 1969. Per quanto riguarda il loro contenuto politico, un’analisi di Reuters mostra che il 26% degli ordini esecutivi firmati riguarda la politica estera: per Biden erano stati il 17% e nel secondo mandato di Obama il 21%. Tutti rivolti, questi ultimi, contro gli avversari degli Stati Uniti, mentre l’attuale presidente non fa alcuna differenza tra nemici e alleati storici, applicando anche a questi ultimi i dazi commerciali.

C’è poi tutto il tragicomico capitolo del Dipartimento di Efficienza Governativa (Doge), guidato da Elon Musk nato con l’obiettivo di abbattere la spesa pubblica, per recuperare le risorse necessarie per ridurre il carico fiscale. Finito, come si è visto, con la resa, sotto forma di dimissioni, del magnate sudafricano. Senza contare le numerose querelle giuridiche che tali atti avevano provocato. A dimostrazione di quanto il garantismo democratico sia resiliente. Come probabilmente si avrà, ancora, occasione di constatare.

Garantismo democratico, i dazi di Trump sono molto più di una battuta d'arresto

Sul piano legale sarà la Corte d’appello federale, quindi nel caso la Corte Suprema, a dirimere la controversia. Ma già da oggi risultano evidenti le contraddizioni che hanno segnato l’intera vicenda. Contraddizioni che attengono sia alla politica economica che agli assetti democratici di un Paese che ha nel check and balance il suo Dna democratico. Il commento Gianfranco Polillo

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