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Nemmeno le rovine della città inca Machu Picchu si sono salvate dal caos che regna in Perù. Centinaia di turisti sono rimasti bloccati diverse ore nella località storica per la sospensione dei collegamenti ferroviari con la vicina Cusco.

La situazione si era presentata già settimana fa, quando un gruppo di manifestanti ha bloccato i binari, costringendo la società ferroviaria a cancellare i treni che avrebbero riportato i visitatori a casa. Fra i turisti ci sono circa una decina di italiani.

Dal 19 gennaio la protesta si è trasferita nella capitale, nella cosiddetta “Toma de Lima” (Presa di Lima). Gli incendi scoppiati per le manifestazioni hanno distrutto uno storico edificio, Casa Marcionelli, a pochi metri da Piazza San Martin. La Chiesa cattolica peruviana ha lanciato un appello a favore del dialogo, mentre nel Paese continuano le proteste. Il bilancio degli scontri con le forze dell’ordine è di 55 morti e più di 1.200 feriti.

La città di Lima non aveva mai visto incidenti così intensi e violente come quelli dell’ultima settimana, secondo la Bbc. La protesta ha come richiesta principale le dimissioni del presidente Dina Boluarte e la convocazione di elezioni generali che rinnovino l’esecutivo e il Congresso. Lo stato di emergenza è stato esteso in tutto il Paese, cancellando così alcuni diritti civili per il ripristino dell’ordine e la sicurezza.

Questa però non è la prima volta che si usa lo slogan “Toma de Lima”. Era stato lanciato altre volte per promuovere mobilitazioni nella capitale, senza molto successo.

In questa occasione a convocare le proteste sono diverse comunità indigene, organizzazioni sindacali e movimenti studenteschi, nonché leader locali dei dipartimenti Huánuco, Ancash, Lambayeque, Tacna, La Libertad, Moquegua, Apurímac, el Vraem, Arequipa, Loreto, Cajamarca e Junín. Gran parte di queste zone sono rurali e hanno la maggioranza delle risorse naturali del Perù (qui l’articolo di Formiche.net).

Leonela Labra, rappresentante di Cusco, ha dichiarato che “il popolo e le comunità contadine si mobilitano. Ma com’è possibile che dobbiamo venire fino a Lima perché si ascoltino le nostre richieste e la nostra agenda? Questo governo ha perso legittimità dal giorno uno”.

A più di 20 giorni da questa ultima ondata di proteste in Perù, anche i Paesi vicini tra cui Cile, Bolivia ed Ecuador ne soffrono le conseguenze economiche con la paralisi di molte attività.

Nel caso della Bolivia, per esempio, la chiusura del ponte Desaguadero, snodo commerciale del Paese, ha provocato il rallentamento delle forniture di merci, lasciando fermi più di 1000 camion. Le perdite ammontano a circa 6 milioni di dollari al giorno, secondo l’Istituto boliviano di commercio estero. La situazione ha causato anche l’aumento del prezzo di circa 150 prodotti tra cui la soia e l’olio di semi.

In Cile la crisi sta colpendo le zone agricole di Tacna e Arica, mentre in Ecuador si sono fermate le conversazioni sull’Alleanza del Pacifico, che potevano portare benefici grazie a un accordo di libero scambio con il Messico.

Edmundo Lizarzaburu, professore di Economia dell’Università ESAN, ha spiegato a Infobae che ogni giorno il Perù perde più di 20 milioni di dollari: “E se pensiamo al turismo, tra il 70% e il 90% delle prenotazioni sono state cancellate. Tutti gli aspetti logistici sono colpiti e questo danneggia le esportazioni […] C’è una cattiva gestione del dialogo, non c’è chiarezza sulle persone che possono sedersi a negoziare e parlare né dal lato del governo né dal lato dei manifestanti”.

Toma de Lima. Quanto costa la crisi in Perù

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