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Alla fine della seconda guerra mondiale la Democrazia cristiana ereditò l’Iri, come grande gruppo di stato che accorpava le industrie strategiche e accompagnò la nascita dell’Agip, per occuparsi delle necessità strategiche nazionali. Più tardi, arrivò anche l’Enel, come società nazionalizzata dell’energia.
Inoltre la finanza si consolidò intorno a un asse pubblico tra Banca Commerciale, Generali e Mediobanca per tutelare e indirizzare l’impresa privata.

Mediobanca in particolare ricavò il suo spazio in Italia negoziando con la finanza di Parigi, Londra e New York e mantenendo forti legami con la politica di Roma. Questi suoi legami nazionali e internazionali davano robustezza a Mediobanca e al suo asse Comit-Generali, nella negoziazione con le imprese italiane ammesse nel suo “salotto buono”.

La fine della guerra fredda e la fine del sistema politico ancorato intorno alla Dc si è accompagnato anche allo sgretolamento di tutti i suoi complementi industriali e finanziari.

Negli anni recenti sta crescendo uno spazio di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) come una specie di nuovo fondo sovrano di investimenti. Ma un fondo sovrano normalmente non è l’Iri, non dovrebbe salvare imprese decotte e rilanciarle, e non è Mediobanca, non progetta architetture finanziarie per ristrutturare aziende o settori produttivi.

Ma in assenza di Iri e della vecchia Mediobanca oggi Cdp pare tirata da una parte o dall’altra per assolvere i doveri dell’uno o dell’altro. Mancano a Cdp le relazioni internazionali per la finanza tipo Mediobanca, e mancano il personale e le capacità per industriali per essere Iri.

In questo contesto arriva al governo la grana Telecom.

La vicenda è così intricata da avere mille versioni, ma semplificando c’è insieme: una questione di un settore ad alta redditività con un grandissimo futuro, le telecomunicazioni; c’è una questione di servizi da fornire, collegamenti con aree disagiate; ci sono investitori stranieri, Usa e francesi, che hanno scommesso su parti del settore e ora si ritrovano in mezzo a un bailamme tutto italiano; c’è una frantumazione dei servizi tra aziende diverse, ma contigue e a volte compartecipate.

Insomma è un minestrone in cui occorre portare ordine, fornire servizi al Paese e non scoraggiare gli investitori stranieri, che non devono fuggire dal Paese.

Ma dietro il contingente c’è una questione più ampia. Nella mancanza di architettura finanziario-politica, senza interlocutori forti a Roma, i privati emigrano dove trovano una sponda politica interessata, magari Parigi o Berlino; oppure dove semplicemente pagano meno tasse, in Lussemburgo o in Olanda.

La questione di Telecom oggi ha quindi due aspetti. Uno è contingente: come si fa a ridare fiato a un’azienda che sul mercato ora vale sette miliardi, che continua a perdere, e solo ieri ne valeva decine. Le valutazioni ieri avevano attirato soggetti stranieri che vi hanno investito fortune.

L’altro aspetto è di lungo termine. Oggi c’è Telecom, ieri c’era Autostrade, domani chissà. Tutti questi dossier non dovrebbero essere risolti nel dettaglio dal governo ma da Banche d’affari “istituzionali” che propongono varie opzioni al governo, agli investitori e alla Borsa.

Ma in Italia non c’è più la vecchia Mediobanca, e la nuova Mediobanca, come le Banche d’affari moderne, vogliono vedere un proprio tornaconto netto, al di là degli interessi dei vari Paesi.

Manca poi una Iri, o qualcosa del genere, e manca anche una centrale che pensi alle strategie energetiche. Tutto arriva, non mediato sul tavolo del governo. Questo provoca evidentemente un trombo che porta al collasso decisionale, perché il governo non è attrezzato e non può entrare nel merito specifico di ciascun dossier. Dovrebbe esserci qualcuno esterno che prepara i dossier su cui il governo e il Parlamento decidono.

Se al di là dell’emergenza Telecom non si scioglie problema di lungo termine questo o qualunque governo continuerà ad annaspare.

Serve una nuova architettura industrial-finanziaria per dare sicurezza a chi, straniero o italiano investe nel Paese. Per questo serve anche capire quali sono le direttive dell’interesse nazionale, che deve essere pensato in senso ampio, non da questo o quel partito.

Dopo la seconda guerra mondiale i termini erano chiari oggi non lo sembrano più, eppure è da qui che bisogna ricominciare: a che vuole servire l’Italia?

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