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Ci dobbiamo preoccupare, oltre che del debito della nostra pubblica amministrazione (quasi 156% del Pil), anche di quello dell’amministrazione federale degli Stati Uniti (attualmente al 125% del Pil)? Può sembrare una domanda peregrina a cui rispondere: ciascuno si occupi e preoccupi dei propri debiti. La questione è molto più complessa. Soprattutto da quando i repubblicani controllano la Camera dei Rappresentanti. Nelle interviste televisive concesse dopo la sua elezione a Presidente della Camera, Kevin McCarthy ha detto, senza mezzi termini, che quello del debito federale deve essere visto come la priorità dell’azione del legislativo, aggiungendo, quasi per calmare gli animi, “abbiamo tempo sino all’estate”.

Da alcune settimane, The National Review, il periodico della “intellighenzia repubblicana” pubblica articoli ed anche brevi saggi sull’ultima crisi del debito federale americano: quella del 2011 quando la Presidenza Obama e il Congresso non riuscirono a raggiungere un accordo per “aumentare il limite del debito”. Gli uffici dell’amministrazione federale chiusero per qualche giorno, sino alla formulazione di un’intesa, perché il Governo non poteva fare fronte al pagamento degli stipendi, di luce, gas e quant’altro.

“Fatti loro!” si potrebbe dire. Comportarono, però, un forte crollo delle Borse, un aumento della volatilità dei mercati finanziari e, secondo alcuni economisti, furono tra le determinanti della crisi finanziaria che in Italia innescò un forte aumento dello spread e la nomina del Governo “tecnico”, guidato da Mario Monti. Quindi, ci furono implicazioni anche per noi.

Ho vissuto a Washington per quindici anni ed ho contezza del trauma per l’economia e la finanza se Casa Bianca e Congresso non raggiungono un accordo sullo scostamento di bilancio che le Camere di solito concedono unicamente quando hanno la certezza che il Governo federale frenerà la crescita della spesa pubblica.

Andiamo ai fatti e ai numeri. Sulla spinta dei 1.900 miliardi di dollari di stimoli a carico del bilancio federale varati dal Presidente Biden, il debito pubblico americano è su una traiettoria di forte aumento, mentre il deficit pubblico è già salito al 18,6% del Pil, il livello più elevato dal 1945. Il trend ha spinto il debito federale degli Stati Uniti a superare il picco della Seconda guerra mondiale, ovvero il 106% del Pil (si situa – come già detto – al 125%). Molti economisti e analisti sostengono che l’espansione del debito federale Usa è una bomba a tempo destinata ad esplodere sui mercati finanziari – prima o poi – con possibili downgrade delle agenzie di rating, aumento dei rendimenti per effetto delle vendite da parte di fondi sovrani cinesi e/o del sud-est asiatico, e altre conseguenze del genere.

Altri sono più ottimisti per queste ragioni:

1) I tassi di rendimento sui buoni decennali del Tesoro sono più bassi della crescita (attesa) del Pil e, quindi, il debito federale americano rimarrà gestibile e sostenibile nel prossimo futuro senza un aumento automatico e incontrollato del debito dovuta alla spesa per interessi (come è invece successo in passato all’Italia). C’è però il rischio maggiore dato da un’impennata duratura dell’inflazione che spinga i tassi di interesse ben sopra il tasso di crescita del Pil.

2) Un alto rapporto debito/Pil è una caratteristica diffusa nelle economie dei paesi sviluppati ma può essere riassorbito nel tempo se c’è una forte crescita strutturale dell’occupazione e degli investimenti e una banca centrale che mantiene bassi i tassi di interesse

Senza dubbio, il debito Usa è elevato, ma molto inferiore a quello di altre grandi economie, come ad esempio Giappone (255%) e Italia (156%), mentre è superiore a quello del Regno Unito (100%) e della Zona Euro (100,50%). Cina e altri Paesi emergenti hanno ancora rapporti più bassi di debito/Pil, ma hanno visto aumenti significativi. La posizione relativa degli Usa è anche rafforzata dallo status del dollaro come valuta di riserva, che crea una significativa domanda di debito del Tesoro Usa: la domanda di dollari come valuta rifugio comporta anche domanda di buoni del Tesoro americani e quindi contribuisce a mantenere i prezzi dei buoni alti e i rendimenti bassi.

Sarei cauto nel valutare questo ottimismo. Ci sono buone ragioni per le quali il Segretario al Tesoro Janet Yellen e il Presidente del Federal Reserve Board sono preoccupati: l’inflazione incalza e la crescita reale è in fase di marcato rallentamento. E ci sono anche motivi per inquietare noi: un recente sondaggio della Università di Chicago conclude che l’85% degli economisti americani prevede turbolenze sui mercati finanziari nel 2023. Ci mancherebbe una crisi anche breve del debito federale americano!

Ci dobbiamo preoccupare del debito americano?

Cosa succede se Casa Bianca e Congresso non raggiungono un accordo sullo scostamento di bilancio? Il neoeletto speaker McCarthy ha detto, senza mezzi termini, che quello del debito federale deve essere visto come la priorità dell’azione del legislativo. Le ragioni per essere ottimisti e quelle per essere più “cauti” secondo Giuseppe Pennisi, economista con un passato da dirigente alla Banca Mondiale e al ministero del Bilancio italiano

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