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Qin Gang è un “wolf warrior”, uno dei diplomatici usati dalla narrazione strategica del Partito/Stato per difendere la causa. Venerdì la Cina l’ha nominato nuovo ministro degli Esteri. In un sistema chiuso, reso ancora più chiuso dal dominio di Xi Jinping sul potere, la scelta non può che significare che Qin è un fedelissimo e che i suoi discorsi duri contro l’Occidente, veicolati dalla prestigiosa sede diplomatica di Washington (occupata finora) sono stati ben apprezzati, premiati dalla leadership.

Di più: nell’ imperscrutabile sistema cinese, la nomina significa che il servizio offerto da Wang Yi — che ha guidato il ministero dal 2013 — doveva essere rinnovato. Il momento è d’altronde molto delicato. Il sistema istituzionale cinese dà un ruolo molto importante al ministero degli Esteri, che dovrà raccontare il Paese in un momento in cui è tornato nell’occhio del ciclone. I milioni di casi di Covid che si stanno registrando in Cina — frutto di una sgangherata gestione delle riaperture post Zero Covid — sono un test di immagine pesantissimo.

Molti importanti Paesi stanno ormai seguendo la decisone di Stati Uniti e Italia di richiedere un test negativo per l’ingresso dei cinesi, e questo fa ripiombare indietro la mente a tre anni fa — quando Donald Trump chiamava la pandemia “China virus” e Qin guidava le campagna informativa per accusare l’allora presidente statunitense di sinofobia e razzismo. Nella percezione internazionale, la Cina torna a essere “un problema” che potrebbe scatenare nuovamente impennate di contagi e propagazioni di varianti finora sconosciute. Il lavoro per indebolire quella percezione spetterà anche (e forse soprattutto) al ministero di Qin e alle falangi di guerriglieri con la feluca che (forte dell’esperienza diretta) dovrà coordinare.

Se riuscirà nel suo operato non è chiaro, perché Qin — massimo rappresentante di Pechino a Washington, incaricato di rimettere in carreggiata le relazioni tra le due maggiori potenze del mondo, senza successo — è noto per la retorica velenosa più che per la diplomazia. D’altronde era portavoce del ministero degli Esteri in precedenza, e dunque conosce costi e tempi della narrazione — che per tutte le potenze è asset cruciale nella strategia. Dunque è probabile che il livello di infowar cinese aumenterà nell’immediato futuro.

“Stavamo assistendo a una transizione con la scelta di Qin Gang, da questo precedente rapporto, a volte quasi amichevole, tra il ministero degli Esteri e i corrispondenti stranieri con sede in Cina”, ha spiegato Dexter Roberts, che ha lavorato per oltre due decenni in Cina con Businessweek e Bloomberg, a partire dagli anni Novanta: “Ora i mondi sono diversi e lo vedo come una sorta di parte della transizione verso un rapporto nuovo o molto meno amichevole, se non addirittura ostile”.

Nel 2020, per esempio, Qin batteva molto su un concetto: l’immagine della Cina in Occidente si è deteriorata perché europei e americani — in particolare i media — non hanno mai accettato il sistema politico cinese o la sua ascesa economica. Dimenticava probabilmente che parte di quel deterioramento era anche (e forse soprattutto) dovuto alle responsabilità cinesi sulla pandemia, alla poca trasparenza che quel sistema ha imposto per cercare di gestire i primi periodi di epidemia tenendo tutto nascosto.

Qin, che parla correntemente inglese, ha aumentato la visibilità cinese a Washington attraverso apparizioni pubbliche e nei media in cui spiegava le visioni di Pechino. È un comunicatore esperto di dibattiti e dispute verbali: in passato ha delineato una visione della Cina come un Paese che ha poco da imparare dall’Occidente e ha invocato la sua storia di vittima durante le guerre dell’oppio del XIX secolo. “Era del tutto sprezzante nei confronti della stampa [estera] e non ne faceva mistero”, dice Ed Lanfranco, che ha lavorato da Pechino per l’agenzia di stampa UPI per nove anni, fino al 2009. “Qin mostrava tutta la competenza di Sean Spicer e il fascino di Sarah Huckabee Sanders alla Casa Bianca quando trattava con la stampa” (i due erano i disastrosi capi delle comunicazioni dell’amministrazione Trump).

È originario della città nord-orientale di Tianjin, da dove arrivano immagini tetre di bare accatastate in grandi sale per contenere le vittime del Covid e denunce su ospedali incapaci di sostenere la clamorosa ondata epidemica. Tianjin è uno dei centri devastati dalle infezioni in cui il Partito ha ingaggiato la nuova fase della lotta al
Covid che sarà vinta solo attraverso la “perseveranza” e la “solidarietà” dei cittadini, secondo Xi. Il leader ha parlato in queste ore di quella che chiama “ottimizzazione” (sic!) della gestione pandemica, che Qin e i suoi uomini dovranno raccontare e rappresentare all’estero.

“Una [priorità] è la necessità di proiettare forza e fiducia, e l’altra è la necessità di gestire le sensibilità con un partner bilaterale, gli Stati Uniti”, ha spiegato Peter Martin, autore di China’s Civilian Army, un nuovo libro sulla diplomazia cinese, commentando la scelta con la NPR. “È davvero importante che chiunque ricopra questa posizione sia in grado di percorrere una via di mezzo tra questi due estremi”. Qin Sara in grado?

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