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Nel giro di un paio di giorni le speranze, assai curiosamente sollecitate in tanti nel nostro Paese dall’annuncio della presunta “conferenza di pace” sull’Ucraina di Parigi, prevista per il prossimo 13 dicembre, si sono spente.

La delusione non può stupire, era scontata. Innanzitutto, la convocazione della conferenza di Parigi non è un’iniziativa nuova, tantomeno legata alla visita effettuata nei giorni scorsi dal presidente francese Emmanuel Macron negli Stati Uniti, essendo stata annunciata un mese prima dell’inizio della visita stessa. L’incontro, peraltro, è nato e fin da allora è stato esplicitamente presentato come un’iniziativa volta a riunire i rappresentanti dei Paesi che sostengono la resistenza ucraina e per consolidare quel sostegno, ad oltre nove mesi dall’inizio dell’aggressione russa. Nulla a che vedere, dunque, con una conferenza di pace. L’equivoco è certamente frutto della crescente stanchezza dell’opinione pubblica nazionale al passare dei mesi dall’inizio delle ostilità, perciò della speranza d’intravvedere un qualsiasi segnale di mutamento in senso positivo della situazione.

Vi è anche, tuttavia, a quanto pare poca o nessuna consapevolezza, persino da parte di molti media, del significato di termini e dei concetti a cui essi rinviano, e delle condizioni militari e politiche che ne consentono l’uso a rigor di termini. Una conferenza di pace è un processo diplomatico che si conclude con un trattato di pace, atto giuridico che pone termine allo stato di guerra e consente il ritorno a normali relazioni pacifiche tra gli ex belligeranti. Evidentemente, affinché sia possibile convocare una conferenza di pace è innanzitutto necessario si giunga a una sospensione delle ostilità, a un cessate il fuoco o armistizio tra i belligeranti, a seguito del quale entrambi abbiano la volontà o necessità di sedersi al tavolo della trattativa di pace.

A questo proposito vale forse la pena ricordare che diplomazia e guerra non sono altro che le due facce, mutuamente dipendenti, di una medesima medaglia, i due linguaggi che parla una stessa attività umana il cui nome è politica. Lo scrive in termini tanto semplici quanto efficaci Carl von Clausewitz, al libro VIII e conclusivo del volume Della guerra. Per il prussiano la guerra è “una diplomazia alquanto rafforzata, una maniera più energica di negoziare”, in cui le battaglie si sostituiscono alle note diplomatiche, ovvero il momento nel quale la “politica si manifesta con battaglie”, parla il linguaggio della violenza. Nel caso della guerra in corso in Ucraina al momento e nel prevedibile futuro non paiono esistere le condizioni necessarie affinché la politica possa abbandonare il linguaggio delle armi e tornare a manifestarsi attraverso quello diplomatico.

Successi e insuccessi sul campo degli uni e degli altri continuano a susseguirsi dal 24 febbraio scorso. È prevedibile o auspicabile il collasso militare di uno dei contendenti, in considerazione delle condizioni presenti del confronto e delle possibili, prevedibili conseguenze future? Il cessate il fuoco e la pace che ne consegue sono sempre frutto nella storia o della sconfitta militare o del collasso per ragioni interne di uno dei contendenti o, infine, dell’intervento di una potenza esterna da cui dipenda la sua tenuta.

La Federazione Russa può subire nel breve termine un tracollo militare che la costringa ad abbandonare i territori che ancora occupa in Ucraina? Nonostante il peso delle sanzioni e i costi e perdite della guerra la prospettiva non appare realistica e comunque il Cremlino non potrebbe accettare una sconfitta senza ricorrere ad ogni mezzo pur di evitarla. D’altro canto, un eventuale e al momento improbabile collasso interno russo porterebbe al potere una nuova élite disponibile a porre termine alla guerra o non piuttosto una leadership persino più radicale di quella attuale? Sul versante opposto la strategia russa diretta a colpire la popolazione civile ucraina per determinare il crollo morale del Paese è destinata al successo?

Considerati i precedenti storici di simili modalità d’impiego della violenza e la determinazione e capacità di sopportazione sin qui dimostrate dagli Ucraini la prospettiva non è credibile. Allo stesso modo sul piano militare il sostegno della Nato e degli altri Paesi schierati a fianco di Kiev ne rendono irrealistica una sconfitta decisiva sul campo di battaglia.

Resta l’ipotesi dell’intervento decisivo esterno di una potenza sull’uno o l’altro degli avversari. Gli unici due attori che sulla carta sarebbero in grado di assumere una simile iniziativa sono evidentemente la Repubblica Popolare Cinese e gli Stati Uniti. Le condizioni sul campo e quelle poste per l’avvio di una trattativa poste da Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky sono tuttavia tali da togliere gran parte del possibile spazio di manovra alle due potenze esterne. Pechino non può accettare l’ulteriore umiliazione di Putin, e peraltro trae oggettivamente vantaggio dalla posizione subordinata a cui si trova costretta Mosca. Washington ben difficilmente, per ragioni tanto di politica internazionale quanto interna, può spingere Kiev ad accettare un cessate il fuoco che prefigurerebbe il consolidamento del controllo russo sui territori conquistati dopo il 24 febbraio. La situazione sul campo di battaglia, d’altra parte, continua ad alimentare le speranze degli uni e degli altri, mentre l’inverno si avvicina e con esso un prevedibile stallo militare che rinfocolerà quelle speranze. Stando così le cose i colpi di cannone continuano a sostituire le note diplomatiche.

Conferenza (di pace) per l’Ucraina? La lettura clausewitziana del prof. Bozzo

Nel caso della guerra in corso in Ucraina al momento e nel prevedibile futuro non paiono esistere le condizioni necessarie affinché la politica possa abbandonare il linguaggio delle armi e tornare a manifestarsi attraverso quello diplomatico. Il commento di Luciano Bozzo, professore di relazioni internazionali e studi strategici all’Università di Firenze

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