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È un peccato che i giovani si nutrano esclusivamente a serie Tv. Come se si leggesse solo Dan Brown e si gettassero alle ortiche l’Edipo Re, la Divina Commedia, il Decameron, I fratelli Karamazov e La metamorfosi. Niente di illegale o di ineducato, per carità. Si tratta “di gusti”, direbbe la signorina davanti al suo intrigante aperi-cena e gli occhi agganciati sul cellulare. Continueremmo ad alzarci ogni mattina, a farci la doccia, a prendere regolarmente la metro. Per incrociare, nei vagoni strizzapersone, mortali colleghi viaggiatori, i “lavoraji” (nella felice crasi del magiaro futurista-marxista Lajos Kassák) che hanno sulle ginocchia un thriller di cinquecento pagine. Di dignitosa fabbricazione statunitense.

I classici del cinema

I classici del cinema, tra i quali compaiono diversi capolavori, hanno seguito il destino dei classici della letteratura mondiale. Resistono, come cani randagi, azzoppati e spelacchiati, sulle bancarelle dei mercatini: impolverati e sbrecciati dal sole, nelle loro custodie di plastica con foto di scena scolorita. Certo, mi si dirà, ora i classici esistono in versione digitale, a portata di click, ma chi ha il tempo e la pazienza di leggere Guerra e pace su uno schermetto di 8 pollici se i social ci inondano di notifiche ogni tre secondi, con filmati e news a scatafascio? Quei vecchi film in bianco e nero, tra il muto e il parlato, resistono nelle sbiadite memorie di uno sparuto gruppo di anziani (come chi scrive) e, talvolta, per curiosità o per amore, vengono recuperati da qualche giovane o semi-giovane riconoscente verso i fratelli lionesi.

Una eco di Arsenio Lupin negli anni Trenta

Eppure, se volete entrare in una deliziosa vicenda ambientata fra le due guerre, 90 anni fa, tra Venezia e Parigi (ovviamente ricreate negli studios hollywoodiani), tra alberghi sufficientemente dignitosi, ville di ex ricchi dall’ultimo assegno scoperto, consigli di amministrazione, finti/e nobili/nobildonne che non sono altro che dei simpatici “Arsenio Lupin” in marsina (lui, un irresistibile Herbert Marshall: eccome lo copierà Clarke Gable!) e in abito da sera, con giro di perle finte (lei è Miriam Hopkins: alcune pose umoristiche le adotterà la brava e sfortunata coetanea Jean Harlow), e, intendete, farvi incantare dai loro delicati e gentili furti, ma soprattutto ridere sonoramente, con garbo, gustando del sopraffino umorismo, allora dovete recuperare Trouble in Paradise (Mancia competente, 1932), prima che andiate in pensione.

Una pietra miliare della commedia

Un film-stone che inaugurò la stagione della frizzante sophisticated comedy hollywoodiana (insieme a La donna di platino, 1931, di Frank Capra, con Jean Harlow) considerevolmente apprezzato dai maggiori autori di commedia di tutti i tempi. Da Billy Wilder a Peter Bogdanovich; da René Clair, passando per Marcel Pagnol e Gerard Oury, sino a Jean Pierre Junet e Dany Boon (Benvenuti al Nord); da Luis García Berlanga (El Verdugo) sino al primo Pedro Almodóvar; da Vittorio De Sica, Mario Monicelli, Dino Risi e Luigi Comencini, passando per Pasquale Festa Campanile, sino a Roberto Benigni, Carlo VerdoneMassimo Troisi, Riccardo Milani.

Se poi Trouble in Paradise, che è tratto da una irresistibile scoppiettante commedia di László Aladár (A becsületes megtaláló, 1931. trad. lett. “Un onesto cercatore”), un fine autore inventore di situazioni e intrecci a cavallo tra Aldo De Benedetti e Noël Coward, ed è firmato da Ernst Lubitsch, già affermato regista tedesco degli anni Venti, trapiantato e felicemente innestato negli studios di Hollywood a partire dal 1922, film per il quale Wilder coniò l’epiteto “tocco alla Lubitsch”, allora aspettatevi un perfetto gioco di raffinati incastri umoristici speculari che non vi farà rimpiangere l’intreccio “alla Henry Becque”. Sceneggiatura abilmente sincronizzata sull’asse del piacevole spiazzamento e della reticenza sessuale, come un orologio svizzero, a firma di due esperti della scrittura filmica, Samson Raphaelson e Grover Jones.

La regia che incatena lo spettatore

Sappiate, inoltre, che la regia lubitschana vi avvinghierà con interminabili carrellate, senza che ve ne accorgiate in quanto immersi in quei deliziosi dialoghi sorretti da una impeccabile recitazione (da far rodere d’invidia, anni dopo, Erich Rohmer), insieme alla complicità della colonna sonora di Frank Harling, che ti culla con un anestetico simil-valzer. E, nella scena esilarante del racconto del misterioso furto ai danni dell’ospite dell’albergo François Filiba, da questi raccontato agli astanti, ossia al direttore dell’hotel veneziano e all’ispettore di polizia, Lubitsch si inventa una soluzione registica d’avanguardia. Passa con la camera dal primo (Filiba) al secondo (direttore d’albergo: che traduce dall’inglese all’italiano, per l’ispettore, l’involontaria esilarante denuncia di Filiba), al terzo personaggio (appunto l’ispettore: circondato da alcuni generici) tramite una serie di ben sei tra panoramiche e contro-panoramiche, senza soluzione di continuità. Un piano-sequenza che fece scuola.

L’umorismo come protagonista    

A due anni dall’introduzione del sonoro Ernest Lubitsch consegnava alla storia del cinema mondiale un esemplare saggio sull’umorismo attraverso un perfetto “film parlato”. Egli costruiva un impeccabile meccanismo di situazioni umoristiche, cesellato da battute a raffica, sorretto da mimica e gag delicatissimi, con capovolgimenti di trama continui: infatti, sino all’ultimo non sapremo con quale donna il fine truffatore Gaston Monescu (Marshall) fuggirà: con la bella, bionda complice, Lily (Hopkins), oppure con la bruna, seducente, ex ricca, Mariette (Francis)?

A mo’ di esempio chiuderei con due battute della fine e delicata Mariette Colette (Kay Francis: semplicemente adorabile, da noi con la calda voce di Rita Savagnone), necessarie per scoraggiare, con somma gentilezza, due suoi anziani asfissianti corteggiatori, esemplari tipi goldoniani: il borghese François Filiba (un impeccabile imbranato Edward Everett Horton) e il Maggiore (un impettito anziano Charles Ruggles): “Vede François, il matrimonio è un errore che due persone possono commettere. Un errore delizioso, certo. Ma con voi, François, sarebbe solo un errore”. “Maggiore non vi abbattete. Non siete l’unico uomo che non amo. Non amo neanche François!”.

 

 

 

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