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A un anno e mezzo dopo il primo varo da parte della Commissione Ue, Consiglio e Parlamento Ue hanno raggiunto un accordo circa il testo della direttiva Ue in materia di salario minimo il quale – non più emendabile – dovrà essere approvato in via definitiva dalla plenaria del Parlamento Ue e ratificato dal Consiglio Ue.

La Direttiva – lungi dal prevedere un obbligo di introduzione del salario minimo nei Paesi che ancora non lo prevedono, tra cui l’Italia – è volta a stabilire un quadro a livello comunitario per garantire, sia che i salari minimi siano fissati ad un livello adeguato, sia che i lavoratori abbiano accesso alla tutela garantita dal salario minimo, sotto forma o di salari determinati da contratti collettivi o di un salario minimo legale. Infatti, la Direttiva corre lungo un doppio binario: da un lato, mira ad estendere la copertura della contrattazione collettiva nei Paesi ove il salario minimo legale non è previsto, dall’altro lato, impone – ai 21 Stati Ue che già prevedono un salario minimo legale – il rispetto di una serie di elementi al fine di garantire l’adeguatezza di quest’ultimo quali, ad esempio, criteri nazionali per la determinazione e l’aggiornamento dei salari minimi legali, definiti in modo chiaro e stabile; aggiornamenti periodici e puntuali; l’istituzione di organi consultivi.

In Italia, nel frattempo, la maggioranza è divisa sull’effettiva utilità di tale misura, soprattutto in un contesto – come quello nazionale – ove i minimi salariali sono già previsti dalla contrattazione collettiva. Alla base dell’introduzione di tale misura, vi sarebbe la necessità di aumentare i salari dei lavoratori nonché il loro potere d’acquisto. Ma il salario minimo legale riuscirebbe veramente in tale intento?

In primis, appare evidente ai più come l’introduzione di un salario minimo legale potrebbe sortire un effetto non trascurabile in termini di aumento dell’inflazione: infatti, non appare remota la possibilità che le imprese riversino i maggiori costi del lavoro sui consumatori, determinando un aumento dei prezzi ulteriore rispetto a quello già verificatosi a seguito del conflitto russo-ucraino.

Ma vi è di più. L’incremento del costo del lavoro potrebbe altresì sortire alcuni effetti in termini, da un lato, di aumento del tasso di disoccupazione qualora il salario minimo sia al di sopra del punto di equilibrio tra domanda e offerta nel mercato del lavoro, dall’altro lato, di ricorso al lavoro irregolare, a fini di contenimento dei costi ulteriori che le imprese sono chiamate a sostenere a seguito dell’introduzione di tale misura.

Da ultimo, occorre domandarsi da subito quale sorte spetterebbe ai minimi tabellari fissati dalla contrattazione collettiva, ovvero come il salario minimo legale si coordinerebbe con quanto sino ad oggi generalmente praticato dai contratti collettivi nazionali.

Insomma, a ben vedere il salario minimo finirebbe per danneggiare proprio coloro che si propone di aiutare, ovvero i lavoratori stessi. Nulla quaestio, invece, sulla possibile utilità del salario minimo legale in quei – pochi – settori non ancora regolati dalla contrattazione collettiva. Si pensi, ad esempio, alla platea delle finte partite Iva o mono-committenze, economicamente dipendenti dal proprio committente. Al contrario, per la restante maggior parte della forza lavoro è lecito avanzare alcuni dubbi sull’effettiva utilità di una misura di tale portata.

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