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Adesso che i rischi di allargamento del conflitto tra Russia e Ucraina prendono consistenza, il ministro Guerini vola a Rammstein e conferma l’adesione dell’Italia al sostegno decretato dall’Occidente (e non solo) a Zelensky; e mentre il cancelliere Scholz accetta di inviare carri pesanti a Kiev il presidente del M5S dice che sono accettabili solo quelle “leggere”, con la Lega che strizza l’occhio. Non è improbabile che a Bruxelles si chiedano qual è, e soprattutto quel sarà dopo le elezioni dell’inizio 2023, la politica estera italiana.

Il presidente del Consiglio, finalmente negativizzato, si accinge a riprendere in pieno l’attività di governo e nemmeno il tempo di godere per aver visto approvata alla Camera la travagliatissima riforma del Csm, che subito si ritrova sotto il bombardata del fuoco amico di Iv e Carroccio che annunciano emendamenti al Senato dove i numeri sono ballerini per colpirla sotto la linea di galleggiamento. Per cui l’interrogativo europeo si conferma e prende corpo anche al qua delle Alpi.

Il fatto che la governabilità nel Palazzo e dintorni sia considerata una sorta di optional tranquillamente mutevole a seconda delle circostanze non è vissuto come un handicap: piuttosto alla stregua di un’opportunità. Per fare cosa non importa, a quello ci pensano i talk show.

Invece si tratta di un punto determinante che SuperMario si incarica di rivestire di credibilità: a volte invano. Consci del pericolo, alcuni tra i più avveduti (ce ne sono, anche se sono costretti ad agire sott’acqua) si producono in funambolismi finalizzati a cambiare ancora una volta la legge elettorale: proporzionale per garantire stabilità, elemento agognato e sfuggente come i frutti di Tantalo.

Ne risulta un doppio paradosso. In primo luogo il proporzionale presuppone i partiti, contenitori ormai svuotati di contenuto e diventati ectoplasmi senza che nessuno riesca a ridargli consistenza e autorevolezza. L’applicazione dell’articolo 49 della Costituzione è una chimera, e tale resterà.

In secondo luogo, se il problema è garantire alle formazioni politiche autonomia decisionale per formare maggioranze una volta chiuse le urne, non c’è bisogno di cambiare nulla. Anche con l’attuale meccanismo per oltre il 60 per cento maggioritario, infatti, partiti che intendono svincolarsi dagli impegni di coalizione assunti in campagna elettorale possono tranquillamente farlo. Vedi la decisione di Matteo Salvini di fare il governo con il M5S subito dopo il voto del 2018; vedi il Pd pronto a fare lo stesso a metà dell’attuale legislatura dopo aver sbandierato che i grillini erano alleati impossibili (e viceversa). Ovviamente tali mosse erodono alla radice la fiducia degli elettori verso la politica ma non sembra che i partiti se ne preoccupino più di tanto. Col proporzionale verrebbe meno ogni vincolo coalizione anche prima del voto: in sostanza una giustificazione preliminare per consentire in Parlamento svolazzi lessicali e sottili disquisizioni assolutorie.

Il problema è che la stabilità serve eccome, e la credibilità è essenziale dentro e fuori i confini nazionali. Chi è in grado di garantirle e di incarnarle? Diventa sempre più evidente che la guerra continuerà anche sperabilmente in assenza di perniciosi allargamenti. E che l’economia ne risentirà, mentre neppure la qualità di vita degli europei resterà indenne. Dunque è fondamentale che i singoli Paesi si attrezzino per affrontare le prossime, delicatissime, sfide. In Germania si è già votato e Scholz si comporta come si è visto: la continuità con Merkel è un sogno da riporre nel cassetto. Da pochi giorni il quadro istituzionale si è chiarificato pure in Francia: che Macron abbia la strada spianta è difficile da sostenere, ma che le minacce populistico-sovraniste di Le Pen e di Melenchon siano fugate, a meno di ribaltoni nelle legislative delle prossime settimane, pare verosimile. Idem con Golob in Slovenia, forse l’esito meno scontrato e più significativo.

Ecco, appunto: e noi? Nessuno lo sa. Alcuni assicurano che dopo le elezioni la friabilità di centrodestra e centrosinistra emergerà in modo palese e che dunque si tornerà a chiedere a Draghi di restare al suo posto. Nelle condizioni attuali, più che una prospettiva politica sembra un whisful thinking. D’altra parte che i due contenitori abbiano la forza, dopo l’eventuale vittoria, di proporsi per il governo indicando un premier possibile e condiviso sembra altrettanto illusorio.

Si vedrà. Intanto – guerra a parte, si parva licet – c’è da condurre definitivamente in porto la riforma del Csm doppiando il capo di Palazzo Madama, mentre fisco, catasto e liberalizzazioni demaniali attendono al varco. Poi c’è da predisporre la legge di Stabilità con le previsioni di crescita dimezzate e le incertezze sull’andamento economico globale rafforzate. Chissà se la batracomiomachia italiana ce la farà a reggere tutto questo.

Draghi (di nuovo) a Palazzo Chigi? Wishful thinking

Nessuno lo sa. Alcuni assicurano che dopo le elezioni la friabilità di centrodestra e centrosinistra emergerà in modo palese e che dunque si tornerà a chiedere a Draghi di restare al suo posto. Nelle condizioni attuali, più che una prospettiva politica sembra un wishful thinking. Il mosaico di Carlo Fusi

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