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Qualche giorno fa in una chiacchierata con Patrizia Catellani, che insegna psicologia sociale all’Università Cattolica di Milano, a proposito delle tre principali euristiche che condizionano le scelte degli elettori, ci siamo soffermati sulla capacità dell’effetto bandwagon di conservare tutt’ora, dopo circa due secoli dalla sua prima formulazione pratica, una sua concreta centralità.

Vale la pena ricordare che l’espressione indica la propensione delle persone – e non ultimo quindi degli elettori, in particolare di quelli indecisi, o se preferiamo, dei last minute voter che a ogni votazione crescono sempre di più – di fare una determinata scelta solo perché convinti che è comune a tanti altri, ovvero alla maggioranza della comunità a cui appartengono. Voto tizio o voto quel partito, perché tanto lo fanno tutti e allora se è così di certo vincerà le elezioni.

Se le nostre società liquide sono innanzi tutto società digitali caratterizzate da una predominante socialità che trova una diffusa, profonda e articolata rappresentazione sui social network, allora se fino a vent’anni fa la tendenza di “salire sul carro del vincitore” si manifestava attraverso i media tradizionali o scegliendo strategicamente di diffondere i sondaggi favorevoli fino alla vigilia del voto, forse è il caso di chiedersi oggi quanto un post Facebook, un video su TikTok, un reel pubblicato su Instagram o un selfie twittato con una tempistica perfetta, possono generare una mole tale di interazioni da costruire una variabile sensibile dell’effetto preconizzato nel lontano 1848 dall’attore e comico statunitense Dan Rice.

La risposta, a mio modesto avviso, non può che essere positiva. Del resto, da tempo il presidio dei canali social da parte di alcuni leader. In particolare, non è più solo un riflesso sterile di chi egotisticamente ha piacere a specchiarsi nelle metriche di vanità di un like o di un wow, di un milione in più o in meno di follower e di qualche love sulla foto di giornata.

Preciso, salendo a mia volta sul carrozzone, che mi arruolo volontario nella compagnia di coloro che sono fermamente convinti che un like non corrisponde affatto a un voto, troppo banale e semplice. Ma, diversamente, mi chiedo quanto la massa di interazioni – soprattutto quando non è legata a una presenza di pochi mesi o, peggio ancora, di qualche settimana precedenti il voto, ma è il frutto maturo di una pianta che da tempo vive e vegeta nella giungla dei social network – possa spingere il cittadino che mette il vestito buono della domenica per andare al seggio a scegliere quel leader con il quale ha mantenuto una familiarità digitale di lungo periodo.

Quanto, per esempio, per restare agli ultimi anni ed elezioni, il successo del Partito democratico alle Europee del 2014 sia stato condizionato dall’irruenza social di Matteo Renzi nei due anni precedenti. Ancora, quanto l’exploit del Movimento 5 Stelle nelle politiche del 2018, il cui risultato è ha superato di tanto le previsioni di sondaggi serissimi, è stata determinata dal presidio della Rete e delle piattaforme costruito da Gianroberto Casaleggio? Per non parlare del successo leghista alle europee del 2019. Ecco, forse è questa una versione, ancora non sufficientemente esplorata e discussa, di quella che Daniele Capezzone definisce “likecrazia”, quindi della capacità anche di un post che ottiene centinaia di migliaia di commenti, condivisioni e di mi piace di indurre l’elettore deidelogizzato e deluso a propendere di unirsi alla valanga di interazioni social. Se ci sono tanti like, ci può essere anche il mio.

Un like corrisponde a un voto? L’analisi di Domenico Giordano

Quanto la massa di interazioni può spingere il cittadino che mette il vestito buono della domenica per andare al seggio a scegliere quel leader con il quale ha mantenuto una familiarità digitale di lungo periodo?

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