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Non c’è contrarietà russa nell’ingresso dell’Ucraina nell’Ue. È un passo avanti nei contatti diplomatici che andrà valutato. Comprendere lo stato dei negoziati tra Russia e Ucraina è un esercizio complicato, inquinato dalle reciproche necessità a Mosca e Kiev di non apparire deboli mentre negoziano un compromesso, e da informazioni particolare come il presunto avvelenamento del negoziatore non ufficiale Roman Abramovich.

Vladimir Putin ha investito talmente tanto della sua narrazione nell’invasione che anche i suoi media, finora impegnati nella minimizzazione della guerra, hanno iniziato a parlare un pochino più chiaro: dunque non può mostrarsi debole, ma deve raccontare alle sue collettività un qualche genere di vittoria — pena perdere contatto col popolo indottrinato da un ventennio, e rischi conseguenti.

Volodymyr Zelensky ha costruito attorno alla sua resistenza sul campo un ruolo globale, simbolo della democrazia che resiste alle tenebre della guerra, al buio assalto dell’autocrate, alla violenza del bullo: anche lui ha promesso una vittoria ai suoi cittadini basata su concetti simbolici come la libertà e la sovranità. Concetto che non è facile abbassare in un negoziato — soprattutto con tutti gli occhi del mondo puntati e con un bagaglio di capacità ed esperienze politiche limitato.

Per questo quello partito a Istanbul non ha il contesto per essere un round definitivo di colloqui, sebbene potrebbe essere un passaggio determinante. Innanzitutto perché ci sono voci credibili di un potenziale cessate il fuoco, non è chiaro se totale o puntuale, mentre le reciproche linee rosse rimangono lontane. I combattimenti sono in una fase di fermo, complice anche il fatto che le truppe russe non riescono a sfondare su vari fronti.

Il campo determina la diplomazia. La stasi non significa che gli attacchi sono conclusi, anzi potrebbero riprendere anche in modo più violento. Però ci sono anche altri segnali che da questo rallentamento ne esca qualcosa.

Un membro della delegazione ucraina, David Arakhamia, aveva anticipato al Financial Times che esiste un quadro di accordo con Mosca, la quale lascerebbe cadere la sua richiesta di “denazificazione”, su cui Putin aveva basato la narrazione del conflitto, e dunque significherebbe l’accettazione di un complicato compromesso a suo detrimento — per questo non è chiaro quanto ci sia di vero. Mosca rinuncerebbe anche alla richiesta di non adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, se però Kiev è disposta a escludere l’adesione alla Nato. Da Istanbul potrebbe uscire anche un nero-su-bianco, ossia un accordo scritto, da d’oscure ma di più di uno scambio di vedute.

Per Kiev sarebbe una sorta di modifica costituzionale quella riguardo alla Nato (dopo gli emendamenti del 2019). Zelensky continua a dire anche per questa ragione che ogni accordo di pace dovrà passare per un referendum. In più in cambio della non-adesione alla Nato, l’Ucraina chiede un meccanismo di sicurezza  che dovrebbe essere fornito dai cinque paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (tra questi c’è la Russia, e la richiesta serve per incastrare Mosca nel meccanismo, e poi Pechino), la Germania, la Turchia e l’Italia, il Canada e Israele. Una clausola nell’accordo dovrebbe prevedere che tutti i paesi garanti — disposti all’impegno diretto se Kiev venisse aggredita — non solo non negheranno l’adesione dell’Ucraina all’Ue, ma aiuteranno anche il processo. Mosca è d’accordo davvero?

Di questo sistema di “security garantees” Zelensky dice di averne parlato già col presidente del Consiglio Mario Draghi, ma Palazzo Chigi non ne ha fatto cenno nel suo comunicato sulla conversazione di ieri, lunedì 28 marzo. Eppure è uno dei punti base discussi a Istanbul.

Dall’intesa di cui si parla in queste ore sono escluse le questioni territoriali, perché dovrebbero essere affrontate in un incontro diretto tra i due leader, su cui però il Cremlino ha commentato che è “prematuro parlarne”. Putin non ha ancora definito per altro cosa intenda per “neutralità”, e questo è un altro argomento critico, perché Kiev non accetterà una smilitarizzazione post-nazista in quanto sarebbe un successo per la narrazione di denazificazione putiniana.

Va aggiunto che comunque in ogni dichiarazione il russo ha sempre ribadito i propri obiettivi massimalisti, e anche l’apparente ridimensionamento della campagna al Donbas — unico dei fronti aperti non congelato — esce dall’interpretazione del ministero della Difesa.

Sono elementi che portano a pensare che un accordo definitivo è distante e dunque anche la riunione turca su chiuderà senza risultati ampi? D’altronde, come ha detto lo stesso Zelensky quando l’Economist gli ha posto la domanda se una pace duratura con Putin sia possibile: “Non so se Putin conosce la risposta a questa domanda”.

La resistenza di successo sul campo e sul teatro informativo/comunicativo del conflitto porta Zelensky in vantaggio e complica per lui l’accettazione di compromessi— tant’è che in ogni discorso pubblico ribadisce la necessità dell’integrità territoriale ucraina, mentre l’indipendenza o forse l’annessione del Donbas per la Russia appaiono un obiettivo minimo, almeno per salvare la faccia.

Per Putin serve invece una svolta sul campo e l’allentamento della pressione mediatica per potersi incamminare verso una via d’uscita dalla sua guerra. Fino a quando l’attenzione dell’Occidente sarà alta non potrà dimostrare di cedere di un millimetro. Accontentarsi di successi minori adesso sembra poco possibile, nonostante l’enorme controllo che esercita sull’opinione pubblica, sarebbe comunque troppo rischioso.

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