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Per ogni guerra non esistono solo lo scacchiere geopolitico e quello economico-finanziario da considerare, esiste anche lo scacchiere antropologico, da non sottovalutare. Tutti e tre sono ugualmente importanti e la complessità dei fenomeni violenti e bellici non deve mai privilegiare un approccio a scapito di altri. Di seguito qualche nota (limitata) sull’aspetto antropologico di questa guerra.

La lezione classica è quella di Eric Fromm: il comportamento aggressivo delle persone, leader inclusi, quale si manifesta nelle guerre, nel crimine, nelle liti personali e in tutte le modalità di comportamento distruttive e sadiche, deriva da un istinto innato, programmato filogeneticamente, che cerca l’occasione propizia per manifestarsi (The anatomy of human destructiveness).

L’aggressività, il desiderio di distruttività verso se stessi, gli altri, la natura e Iddio, in coloro che detengono un potere, hanno più occasioni per manifestarsi. Il potere, situandosi in un contesto relazionale, pone sempre chi lo detiene in stretto contatto con la vita altrui – in termini fisici, emotivi, cognitivi, istituzionali, economici – e porta a prendere decisioni per essa. Orbene qui si pone un grande rischio: quando non si hanno convinzioni e principi morali autentici, derivanti da un’autentica formazione e da una verifica costante, la violenza, da remota tentazione, diventa realtà molto probabile. Senza dimenticare che, come dice Guardini, quanto più grande è il potere, tanto più forte è la tentazione di scegliere la soluzione più facile, cioè quella della violenza.

Può questa interpretazione spiegare l’attacco ordinato da Vladimir Putin? Per molti aspetti sì. La Russia (in compagnia di altri 41 Paesi) è ormai una “dittatura morbida”, un “mostro mite” (R. Simone) o, più precisamente, un “authoritarian regime” (Democracy Index, Intelligence Unit of The Economist). Non ci è dato di sapere cosa stia succedendo al dittatore, in termini antropologici ed etici; se la pandemia lo abbia segnato psicologicamente, se c’è un’involuzione nella sua prassi e nel suo pensiero, se quello che stiamo ascoltando nei suoi appelli sia una posizione personale (forse si dovrebbe dire quasi “solipsista”) oppure condivisa dal suo entourage. Certo è che, a molti osservatori esterni, dal punto di vista geopolitico ed economico-finanziario, la dichiarazione di guerra presenta molti elementi di irrazionalità. Se così fosse, la spiegazione antropologica sarebbe quella predominante. Non a caso il plauso esplicito gli arriva da Donald Trump che lo definisce “genio” (Adnkronos) e che conferma i suoi problemi antropologici già studiati durante il suo mandato. En passant (tutto italiano) Berlusconi condanna l’invasione del suo amico; mentre Salvini passa dal Patto con Putin (2017) al No alla guerra e al Sì ai corridori umanitari (Askanews). Il potere è una scena teatrale, come scriveva Shakespeare: tragica o comica, razionale o paradossale, dipende sempre dai vari attori e contesti.

La scena teatrale impone sempre una riflessione, che va oltre gli attori alla ribalta. Perché essi sono o diventano così violenti? La violenza nasce non nelle istituzioni, ma nella persona. In ognuno di noi si possono distinguere, secondo Platone, tre forze: quella concupiscibile (noi diremmo del desiderio), quella animosa (noi diremmo emotiva) e quella razionale. Esse sono tra di loro in relazione gerarchica: la ragione deve governare, sia le emozioni, sia i desideri, orientandoli verso il bene. Il conflitto nasce quando emozioni e desideri assumono il comando della persona e la razionalità soccombe; ciò accade quando la persona si abbandona ad una vita disordinata, fatta di piaceri ed istintività e non è educata ad una vita equilibrata, che Aristotele chiama virtuosa.

Anche la storia biblica conosce il rapporto tra potere e violenza e ne sono emblema i primi due re di Israele, Saul e Davide. La molteplicità degli eventi mostra come la stabilità della regalità dipenda dal valore dato alla forza: il regno è sicuro quando è stretta la fedeltà al Signore; solo allora il nemico non può vincere. Fragile diventa il regno quando si affida a braccia avide di potere, quando i cuori di molti sono inquinati da cupidigia e disordini relazionali. Gli autori biblici sono ben convinti che il potere scateni le varie cupidigie e le forme di idolatria che fanno allontanare i regnanti dalla via di Dio e lo fanno precipitare nella violenza, di cui, alla fine, resta lui stesso vittima.

Putin – insieme a diversi altri nel mondo – non è un caso troppo difficile per gli autori classici o biblici. La tristezza è che molte cittadine e cittadini hanno scarsa coscienza di quanta violenza il loro consenso a leader, populisti e violenti, può determinare. Amare, ma ancora vere, sono le parole scritte da Herman Hesse nel lontano (!?) 1927: “… Questo non mi vogliono perdonare, poiché naturalmente loro sono tutti innocenti: l’Imperatore, i generali, i grandi industriali, gli uomini politici, i giornali: nessuno ha nulla da rimproverarsi, nessuno ha la minima colpa! Si direbbe che il mondo è un paradiso, salvo che ci sono una dozzina di milioni di uccisi sotto terra. Vedi, Erminia, questi attacchi non mi danno più fastidio, ma qualche volta mi mettono addosso una grande tristezza. Due terzi dei miei concittadini leggono questa razza di giornali, leggono mattina e sera queste parole, vengono lavorati ogni giorno, esortati, aizzati, resi cattivi e malcontenti, e la fine di tutto ciò sarà di nuovo la guerra, la guerra futura che sarà probabilmente più orrenda di quella passata. Tutto ciò è semplice, limpido, tutti potrebbero capire e arrivare in un’ora di riflessione al medesimo risultato. Ma nessuno vuol riflettere, nessuno vuole evitare la prossima guerra, nessuno vuol risparmiare a sé e ai propri figli il prossimo macello di milioni di individui. Rifletterci un’ora, chiedersi un momento fino a qual punto ognuno è partecipe e colpevole del disordine e della cattiveria del mondo: vedi, nessuno vuol farlo…” (Il lupo della steppa).

La guerra in Ucraina e lo scacchiere antropologico. La riflessione di D’Ambrosio

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