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Tranne il premio per la sceneggiatura originale (Belfast di Kenneth Branagh, Gran Bretagna) e per migliore regia (Jane Campion, Il potere del cane – GB/Australia), quasi tutti gli Oscar della 94ma edizione rimangono in Usa, anche grazie a intelligenti co-produzioni. Il nostro candidato, È stata la mano di Dio, sezione miglior film straniero, non ce l’ha fatta.

Dovremmo riflettere sui nostri soggetti. Se vince un film che parla di disabilità, appunto CODA (acronimo per Child Of Dead Adults), significa che il pubblico e i giurati pensano a un film da premiare che racconti una storia universale. E anche quando siamo dentro le vicende storiche di un Paese se la “storia” raccontata è accadibile in altri contesti, allora il film è riconosciuto nel suo linguaggio non locale.

Così accadde per il cinema italiano premiato agli Oscar negli ultimi ottanta anni. Sciuscià (1947) di Vittorio De Sica; La strada (1957) di Federico Fellini, Amarcord (1975) ancora di Fellini; Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1971) di Elio Petri; Nuovo cinema paradiso (1990) di Giuseppe Tornatore; La vita è bella (1999) di Roberto Benigni, per citarne alcuni. Incluso il Sorrentino di La grande bellezza, nel quale parlando del disfacimento di una città “capitale”, della insincerità dei rapporti umani, della pseudo-cultura, metaforizzava sulla perdita dei valori e della “bellezza” nella società contemporanea.

È stata la mano di Dio avrà avuto sicuramente i suoi estimatori in Usa, e tra alcuni giurati, ma non li ha convinti tutti. Forse per il taglio troppo autobiografico e per soluzioni narrative a tratti eccessivamente simboliche? Infatti il giapponese Drive my car, pur raccontando un storia ambientata in Giappone, propone temi universali, quali l’amore, la fedeltà, la creazione artistica, con riferimenti alla cultura (Samuel Beckett, Anton Čechov) e per questo, probabilmente, ha guadagnato più attenzione dalla giuria.

Migliore regia a Jane Campion, per Il potere del cane, favoritissimo alla vigilia anche per altre statuette (mancate), che consente alla regista neozelandese, comunque, di diventare la terza donna a conquistare la statuetta dopo Katrhyn Bigelow (The Hurt Locker, 2010) e Chloé Zhao (Nomadland, 2021).

Miglior attore a Will Smith per Una famiglia vincente. King Richard, di Reinaldo Marcus Green, prima arrabbiato per esser stato offeso dal comico Chris Rock, durante la cerimonia, poi, commosso, per la statuetta ricevuta. Migliore attrice è stata decretata Jessica Chastain (la ricordiamo in La signoria dello zoo di Varsavia, 2017, Niki Caro), per Gli occhi di Tammy Faye, di Michael Showalter.

Siamo curiosi di vedere anche il film animato Encanto di Byron Howard e Jared Bush, ambientato in Colombia, che ha battuto l’innovativo italiano Luca, di Enrico Casarosa e Andrea Warren, dall’interessante taglio neo-disneyano innestato nei pupazzi tridimensionali della Pixar, con un occhio alla tradizione dell’est Europa (vedi Jiří  Trnka).

Gran parte delle statuette “tecnico-artistiche” sono state accaparrate dalle maestranze hollywoodiane di Dune (Part One), di Denis Villeneuve: scenografia, fotografia, effetti speciali, colonna sonora, montaggio.

 

 

Premio Oscar a “CODA”, il film che parla diversamente

Miglior film è “CODA-I segni del cuore” di Sian Heder, storia di una famiglia di non udenti che ha battuto il favorito, “Il potere del cane” di Jane Campion. La quale, però, ha vinto la statuetta per la migliore regia. Quasi tutti gli Oscar più importanti rimangono negli Stati Uniti, anche grazie alle intelligenti coproduzioni. Delusione per “È stata la mano di Dio”, di Paolo Sorrentino, forse ritenuto troppo “filosofico”

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