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Veniamo al sodo. Sergio Mattarella fa bene a rifiutare il bis del settennato al Quirinale oppure la sua opposizione, seppur solidi ancoraggi a motivazioni istituzionali, rischia di far precipitare il sistema politico in una spirale distruttiva?

Dopo aver inutilmente tentato di sviscerare le parole pronunciate del capo dello Stato nelle occasioni ufficiali cercando di individuare spiragli per forzare la ricandidatura e aver perfino usato l’applausometro come elemento a conferma, di fronte ai continui annunci di addio dell’ inquilino Colle c’è chi continua a insistere sulla necessità della permanenza di Mattarella nell’incarico.

Lo fa in maniera ufficiale il Movimento Cinque Stelle anche a costo di rinnegare la pronuncia di Giuseppe Conte a favore di un Presidente donna. Lo fanno in modalità, chiamiamola così, carsica vari esponenti delle forze politiche che non vedono di buon occhio il trasloco di Mario Draghi da palazzo Chigi al Colle. Lo fanno, usando i media a disposizione, candidati non ancora ufficiali ma assai golosi di un ruolo che rappresenterebbe il risarcimento di anni di battaglie contro: dalla presunta persecuzione giudiziaria all’umiliazione del voto che ne ha decretato la decadenza dal seggio senatoriale. È il caso di Silvio Berlusconi.

Su tutto, comunque, resta il diniego di Mattarella, mentre le forze politiche giocano a rimpiattino, logorando la leadership di SuperMario e a due settimane dal primo scrutinio alla Camera da parte dei Grandi Elettori, senza riuscire a trovare il bandolo della matassa per un’intesa unitaria. E avanza il sospetto che forse neppure lo cercano.

I fan più fan di tutti del reincarico pattinano su due sci. Il primo, concerne la necessità – vera o strumentale – di lasciare l’attuale presidente del Consiglio nel posto dover sta, perché l’unico in grado di reggere la composita nonché stramba maggioranza di pseudo larghe intese e perché baluardo di rassicurazione sia dei mercati che della Ue riguardo l’applicazione del Pnrr.

Il secondo sci concerne l’esperienza maturata con Giorgio Napolitano: di fronte all’impossibilità di trovare un candidato capace di raggranellare i consensi necessari per essere eletto, col cappello in mano come si usa dire, il Pd allora guidato da un Pierluigi Bersani sfiancato dai 101 franchi tiratori pregò Napolitano di rimanere al suo posto. L’allora presidente accettò chiedendo in cambio della sua disponibilità l’impegno a fare le riforme istituzionali. Che non furono fatte e di conseguenza il capo dello Stato per la prima volta nella storia della Repubblica rieletto, mollò tutto.

Sono queste due ragioni valide?< La risposta è multipla, a seconda di quale obiettivo si voglia proseguire. Tuttavia un paio di elementi oggettivi ci sono, e vanno annotati. Il primo concerne SuperMario e la sua coalizione. Sempre più nelle ultime settimane sono apparsi evidenti segni di scollamento tra il premier e i partiti che lo sostengono. Scollamento destinato ad accentuarsi in un anno come l’attuale che prepara l’appuntamento elettorale di fine legislatura del 2023. Di conseguenza, per mantenere Draghi al suo posto occorre che i partiti che lo appoggiano stipulino, rinnovandolo, un patto forte di alleanza e di obiettivi condivisi come fu, in verità piuttosto obtorto collo, quando Mattarella affidò l’incarico di governo all’ex presidente della Bce. Fu una decisione presa sulla scorta di un collasso della governabilità. La possibilità che quel tipo di patto possa essere sottoscritto al momento (e anche dopo?) appare piuttosto scarsa. Secondo elemento. Anche quando il Pd e altri si risolsero a chiedere a Napolitano di restare in carica c’era in ballo un collasso: non solo del Nazareno ma dell’intero sistema politico. La soluzione fu estemporanea seppur ammantata di legittimità costituzionale.  Ma quanti collassi può sopportare il sistema politico-istituzionale? Chi maneggia la ricandidatura di Mattarella sembra mettere la sordina e voler usare un tappo per bloccare il naufragio di una barca che fa acqua da troppe parti. Forse il diniego di Mattarella nasce anche di qui. Cioè dalla consapevolezza – che in altri latita – che un bis invece di sanare rischierebbe di mandare in suppurazione le ferite di una rappresentanza politica avvitata patologicamente su sé stessa.

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