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Nel più assoluto mistero che lo circonda – quasi nessuno, anche nel palazzo, ha letto una riga – il Trattato del Quirinale, l’entente cordiale (si spera) che Francia e Italia sigleranno a Roma questo venerdì ha già sfatato miti duri a morire.

Il primo è quello di un’Europa condannata a rimanere monolitica, monodirezionale, monotona. Quando quattro anni fa, circondati dagli ori di Versailles per la celebrazione dei Trattati di Roma, Angela Merkel e Francois Hollande osarono parlare di “Europa a più velocità”, vesti stracciate e grande sdegno, “e dove mettiamo la solidarietà?”.

Oggi quel rumore è lontano, un sottofondo. Quattro anni di Donald Trump alla Casa Bianca e una pandemia hanno sdoganato una volta per tutte l’idea di un “motore” europeo tra Francia, Italia e Germania. Tanti altri miti sono caduti. L’autonomia strategica, vessillo sbandierato dalla Commissione Ue di Ursula von der Leyen per indicare una “terza via” tra Cina e Stati Uniti nei settori critici delle supply chain globali, non si raggiunge impiccandosi al voto di unanimità del Consiglio europeo, il più ingombrante bastone fra le ruote di Bruxelles.

Più funzionale, ed efficace, procedere per singoli passi, dove si può e si deve. Ecco allora riaffiorare un trattato frutto di negoziati lunghi e silenziosi (troppo, dicono) di cui pose la prima pietra un commensale di quel ritrovo a Versailles, l’ex premier Paolo Gentiloni. Difesa, sicurezza, ambiente, industria, per contare i settori interessati non bastano due mani e del contenuto si sa ancora poco e niente, in attesa della conferenza stampa di venerdì tra Mario Draghi ed Emmanuel Macron.

Alcune cose invece si sanno. La prima: è un accordo di cui c’era bisogno, e non da ieri. I pericoli certo non mancano: il tempismo e l’ampiezza dell’intesa pronta ad essere firmata rendono reale il pericolo di un lento scivolamento del nostro Paese nella sfera di influenza francese nei prossimi anni. Pesa anche l’incertezza politica che aleggia intorno a Macron, pronto a tuffarsi in una nuova corsa alle urne nel 2022 senza garanzia alcuna di tornare all’Eliseo. La prudenza insomma è d’obbligo. Tanto più alla luce di un decennio di tanti bassi e pochi alti nei rapporti bilaterali, con una calata irruenta del capitalismo francese negli asset economici e finanziari italiani – Borsa-Euronext, Essilor-Luxottica-Mediobanca, Stx-Fincantieri o, per stare all’attualità, Vivendi-Mediaset-Tim – e una serie di gaffes per fortuna rientrate, insieme ai gilet che le hanno rivestite.

E tuttavia, a ben vedere, i vantaggi dell’entente italo-francese sono innegabili. Vediamone alcuni. Come dimostrano le sirene niente affatto amichevoli della stampa nord-europea, il Trattato del Quirinale rischia di spostare un po’ a Sud il baricentro strategico dell’Ue. Serve uno sguardo italo-francese per permettere all’Ue e alla sua macchina burocratica e diplomatica (squisitamente mitteleuropea) di superare la naturale ritrosia a guardare al Mediterraneo, condannato a rimanere in sordina rispetto alle vicende che interessano il fronte Est. Immigrazione, sicurezza, energia: la sponda Sud conta, e conterà molto di più dopo la firma di venerdì.

Il secondo vantaggio sta nell’inaugurazione di un meccanismo stabile di coordinamento da una parte all’altra delle Alpi sui dossier più divisivi e forieri di incidenti, a partire da quelli economici. La pandemia ha alzato recinti e sospetti anche fra vicini di casa, basta ripercorrere gli allarmi del Copasir sulle mire finanziarie francesi per farsi un’idea. Ma, come ha scritto in un bell’editoriale per Le Grand Continent Alessandro Aresu lo scorso anno, “nessuna strategia industriale su scala bilaterale né continentale potrà funzionare senza un tessuto di fiducia”.

Dunque il terzo motivo. Come ha ricordato Dario Fabbri su La Stampa, una ratio dell’accordo è da cercare nel tentativo di “unire il peso di Parigi e Roma per inibire un possibile ritorno all’austerity imposto dalla prossima cancelleria”. Uno schiaffo all’austerity e ai suoi aedi che ne invocano il ritorno. Se non fosse che da quando il trattato è stato pensato le carte in tavola sono cambiate. C’è la firma di Merkel e della Germania sul benestare europeo al Recovery Fund e la messa in soffitta del patto di stabilità, un trend che, almeno nell’immediato, la “Coalizione semaforo” in fasce guidata da Olaf Scholz non ha intenzione di invertire.

Per questa e altre ottime ragioni interpretare la firma di venerdì con la sola lente del patto anti-tedesco può indurre a una cantonata. Semmai, ha notato su queste colonne Giulio Sapelli, l’Italia ha tutto l’interesse di costruire e rafforzare la “terza gamba” dell’intesa con una più stretta cooperazione italo-tedesca. È già nei fatti, nella sinergia e nella simbiosi dell’industria del Nord, dall’automotive al farmaceutico. Non manca neanche la sintonia politica, tanto più con Draghi a Palazzo Chigi.

Forse non è un caso se, a soli due giorni dalla firma del Trattato, Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico leghista e interprete di primo piano di questa fase politica, abbia deciso di intrattenersi questo martedì sera per una conversazione su “Italia e Germania per la ripartenza dell’Ue” nella Torre Generali di Milano in un evento di Villa Vigoni, centro italo-tedesco per il dialogo europeo sul Lago di Como, cuore pulsante della cooperazione culturale e politica fra i due Paesi. Un messaggio in filigrana a Berlino: al Quirinale c’è un posto in più.

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