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Adesso la crisi in Etiopia fa paura anche alla Casa Bianca. L’amministrazione di Joe Biden è pronta a fare la sua parte per sventare una guerra civile. Uno scenario che si avvicina di giorno in giorno. Il premier Abiy Ahmed ha fatto un appello alla popolazione per prendere le armi. E la discesa verso la capitale Addis Abeba dei separatisti del Fronte di liberazione del Tigrè (Tplf) e l’Esercito di liberazione degli Oromo (Ola) continua senza grandi interruzioni.

Il prezzo umanitario dello scontro è altissimo. Solo in Tigray, avvisa l’Onu, un anno di guerra ha lasciato 400.000 persone nella morsa di una carestia. Da settimane il governo americano ha intensificato i contatti con l’Unione Africana e l’Onu per promuovere un cessate il fuoco. A dirigere le operazioni Jeffrey Feltman, inviato speciale per il Corno D’Africa, diplomatico rodato. È stato ad Addis Abeba dal 4 al 7 novembre per incontrare i vertici dell’unione e del governo Abiy. E a preparare il terreno di una visita-chiave del segretario di Stato Antony Blinken in Africa, la prima del suo mandato.

Nessuna tappa in Etiopia – le condizioni di sicurezza lo sconsigliano – che però sarà al centro degli incontri nella regione. Il tour partirà la prossima settimana e prevede tre tappe: Kenya, Nigeria e Senegal. Arriva con qualche mese di ritardo: Blinken doveva partire in estate, ma l’escalation in Afghanistan ha costretto a rimandare, spiega Foreign Policy. Ora il Paese africano ha scalato l’agenda del Segretario: bisogna evitare in tutti i modi “l’implosione dell’Etiopia e una spirale negli altri Paesi della regione”, ha detto venerdì.

La missione non è semplice. A Washington cresce la preoccupazione per l’instabilità in Africa centro-orientale e gli effetti di medio periodo sulla sicurezza del quadrante. Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, l’ha ribattezzata “epidemia di colpi di Stato”. In un anno quattro sono andati a segno – Sudan, Chad, Mali, Guinea, altri tre – Repubblica centrafricana, Niger e Madagascar – sono falliti all’ultimo.

L’Etiopia però è un caso a parte. Con 116 milioni di abitanti, è il primo Paese africano per popolazione e il cuore diplomatico del Continente (ad Addis Abeba ha sede l’Unione africana oltre che diverse agenzie Onu). Prima che scoppiasse la guerra, che finora ha prodotto migliaia di morti e decine di migliaia di sfollati, era un caposaldo per la sicurezza della regione, sia per la gestione dei flussi migratori, sia per il contrasto ai tanti gruppi terroristici che operano nel Corno d’Africa.

Per gli Stati Uniti un intervento diretto è fuori discussione – tanto più a quattro mesi dalla vicenda afgana – anche se c’è chi non esclude la possibilità. Su Bloomberg l’Ammiraglio James Stavridis, già Comandante supremo della Nato in Europa, invita il governo americano a “partecipare a una missione di peacekeeping dell’Onu per separare le fazioni in guerra”, e a fare leva sulle “capacità logistiche” del Comando militare Africano (US Africom).

Finora Biden ha deciso di non schierarsi. A settembre il governo ha minacciato dure sanzioni contro entrambe le parti in conflitto, compresi i governi etiope ed eritreo. E ancora questa settimana, a poche ore dall’appello alle armi di Abiy, il presidente americano ha ventilato l’esclusione dell’Etiopia dall’ “Africa Growth and Opportunities Act”. È il programma che permette ai Paesi africani di esportare materie prime negli Stati Uniti senza pagare dazi, e all’Etiopia ha fruttato dalla sua introduzione complessivamente un milione e duecentomila posti di lavoro.

A questo venerdì invece risale un nuovo round di sanzioni del Dipartimento del Tesoro contro sei entità legate al regime di Isaias Afwerki. Fra le organizzazioni sotto il torchio americano, accusate di “massacri, saccheggi e aggressioni sessuali”, la Forza di Difesa eritrea e il Fronte popolare per la democrazia e la giustizia.

Bastoni e carote: sarà l’armamentario nella valigia di Blinken durante il suo tour africano, tra nuove sanzioni e aiuti umanitari, compresa una possibile spedizione di vaccini Pfizer nelle zone in conflitto. Alla crisi umanitaria e all’impatto sulla sicurezza si somma il fattore geopolitico della guerra in Etiopia, un Paese da anni finito nei radar di Pechino e terminale-chiave della nuova Via della Seta. Anche per questo non è da escludere che la crisi finirà nel colloquio telefonico che Biden avrà lunedì prossimo con il presidente cinese Xi Jinping.

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