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È di sabato 22 gennaio la dichiarazione con cui il Foreign Office britannico ha rivelato un “piano del Cremlino per insediare un leader filorusso in Ucraina”. Il ministero degli Esteri di Londra sostiene di avere “informazioni” relative a contatti fra i servizi d’intelligence di Mosca e altre quattro personalità politiche di Kiev: l’ex primo ministro Mykola Azarov, gli ex vicepremier Serhiy Arbuzov e Andriy Kluyev, nonché l’ex vicecapo del Consiglio di sicurezza nazionale Vladimir Sivkovich, tutti in sella sotto la presidenza considerata filorussa di Viktor Yanukovich, deposto nel 2014. Per Washington le accuse sono “preoccupanti”, per Mosca si tratta di “assurdità”.

Secondo quanto ricostruito da Sky News, le conclusioni del Foreign Office sono basate su un’analisi dell’intelligence britannica, che ha attinto a varie fonti, anche da informazioni statunitensi. La partita ucraina rappresenta un test importante per le capacità e le speranza della ministra Liz Truss, da molti commentatori individuata tra i potenziali candidati alla leadership del Partito conservatore in caso di caduta del primo ministro Boris Johnson.

Mark Galeotti, direttore di Mayak Intelligence e senior associate fellow del Royal United Services Institute, si è detto dubbioso sulle dichiarazione della diplomazia britannica per l’assenza di informazioni specifiche, ma anche per un problema di analisi (“i russi, come tutti gli altri, pianificano molteplici contingenze”, “operano su più assi”). L’esperto è “certo” che Mosca abbia avanzato offerte agli ucraini scontenti per averli dalla sua parte; “ma questo non è di per sé la prova di un piano del Cremlino e di un intento specifico”.

Ecco perché i governi occidentali devono “trovare un modo per conciliare sicurezza delle informazioni e la messa a disposizione di prove migliori a sostegno della loro narrativa”, sostiene Galeotti. E aggiunge: “Una delle diverse ragioni per la disunione occidentale in generale sull’Ucraina è la mancanza di un chiaro senso di ciò che sta accadendo e la narrativa mista e talvolta poco plausibile da parte dei governi occidentali”.

Che possa esserci un tentativo russo di destabilizzare dall’interno l’Ucraina è plausibile, al di là delle informazioni di intelligence britanniche. D’altronde in un’intervista di tre settimane uno dei player centrali del complotto, un ex deputato accusato di cospirare — per conto di Mosca — contro il governo ucraino, Yevhen Murayev, aveva parlato abbastanza chiaramente: “Per qualche motivo penso che avremo un riavvio e il governo sarà nuovo […] Sono assolutamente certo che cambierà il formato dei negoziati sul conflitto nell’Ucraina orientale”. E ancora: “Se succedesse qualche grosso problema, allora saremo costretti a farlo, perché il governo ucraino non vuole la pace”.

Si tratta anche di pressioni psicologiche, parte del playbook russo, su cui c’è un adattamento occidentale. Per esempio: l’evacuazione del personale sanitario non fondamentale dalle ambasciate americane e britanniche di Kiev serve a dare sostegno agli annunci su una potenziale invasione russa — che potrebbe arrivare dal Donbas o dai confini bielorussi; tant’è che la smobilitazione è stata smentita dall’ambasciatore russo a Washington come mossa per scoprire il bluff . Ancora: il tweet della portavoce della Nato su nuovi dispiegamenti di assetti aerei danesi e olandesi, che però sono meno di dieci, in Lituania e Bulgaria e sull’arrivo di una fregata spagnola nel Mar Nero e truppe francesi in Romania.

Il messaggio che si vuole trasmettere ruota non tanto attorno alla mobilitazione militare alleata (dal punto di vista quantitativo) ma sulla disponibilità ad accettare essa. Ossia: la Nato fa sapere a Mosca che se vuole è in grado di coinvolgere rapidamente le forze armate di diversi Paesi per rafforzarsi dove e come serve — si parla della possibilità che sia messa in azione anche la Nato Response Force da 40mila unità. È una reazione necessaria perché la Russia così come la Cina potrebbero vedere l’opposto come una forma di debolezza.

Lo stesso linguaggio parlato dagli americani che hanno fatto uscire sui media il contenuto di una riunione che il presidente Joe Biden ha avuto a Camp David sabato 22 gennaio, nella quale sono stati presentati al commander-in-chief dei piani per rafforzare con uomini e mezzi terrestri, aerei e navali la presenza americana lungo il fianco nord e ai confini russi.

Una decisione sul da farsi sarà presa in settimana. Secondo il New York Times, che ha parlato per primo della notizia, il numero di forze che potenzialmente potrebbero essere schierate anche in questo caso non è spaventoso — si parla dai mille ai cinquemila uomini, e comunque meno di diecimila: per confronto, la Russia ne avrebbe spostato in prontezza operativa 130mila ai confini ucraini — ma anche qui il senso è la presenza. Tra i mezzi navali mossi potrebbe esserci la portaerei “USS Harry Truman”, in questi giorni impegnata insieme all’italiana “Nave Cavour” e alla francese “Charles De Gaulle” in manovre nel Mediterraneo.

La Truman si muoverà poi verso l’Artico, per la più grande esercitazione Nato dagli anni Ottanta a oggi, incrociando la rotta con quella di alcune navi russe che stanno manovrando al largo dell’Irlanda e che si dirigeranno nel Mediterraneo allargato e nell’Oceano Indiano. Mosca ha annunciato una mobilitazione di tutte le flotte, in quella che è un’altra operazione psicologia per dimostrare capacità militari da restauratio imperi — come faceva notare su queste colonne Giorgio Cella (UniCatt) — che non collimano con la situazione economica generale del Paese.

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