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Oggi 16 ottobre il Centro Studi Confindustria (CSC) presenta le proprie previsioni economiche nel corso di un grande convegno dal tema “Quale economia italiana all’uscita dalla crisi?”. È l’ultima, in ordine di tempo, delle previsioni settembrine sul futuro a medio e lungo termine dell’economia del Paese. In questi ultimi, sono state presentante quelle del Governo nella Nota d’Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (Nadef), del Fondo Monetario Internazionale nell’Economic Outlook e nel documento della Confcommercio Note sulla Condizione Economica dell’Italia dopo la pandemia. Le stime del CSC avranno naturalmente, come sempre, una grande eco mediatica.

È utile, a nostro avviso, esaminarle e raffrontarle (quando saranno disponibili) tenendo conto degli altri scenari presentati nelle ultime due settimane. C’è un tratto molto simile sia nella Nadef, sia nell’Economic Outlook, sia nello studio della Confcommercio: una rapida ripresa nell’anno in corso (le stime variano tra un aumento del Pil per il 2021 tra il 5,8% ed il 6%, un differenziale impercettibile) ed un rallentamento l’anno seguente (nel 2022, il Pil aumenterebbe del 4.2-4,5%, ancora una volta un differenziale impercettibile). C’è stata una certa esultanza quando è stata presentata una crescita del 6% per l’anno in corso. Non si è riflettuto che si tratta di un mero rimbalzo tecnico successivo alla profonda recessione. Per porre le stima in prospettiva, occorre pensare che unicamente alla fine del 2022 l’Italia tornerà al Pil del 2019, il quale, a sua volta, era appena ai livelli del 2000, a ragione della stagnazione dovuta essenzialmente al ristagno della produttività.

Utile tenere presente un altro indicatore: i salari medi. Come rileva la Fondazione Open Polis, nonostante l’impatto della pandemia sul mondo del lavoro, nel 2020 in molti Paesi europei i salari medi annuali sono aumentati. Si tratta di una tendenza di progressivo miglioramento che negli ultimi 30 anni ha caratterizzato tutto il continente, fatta eccezione per l’Italia.

In alcuni Stati, soprattutto quelli dell’ex blocco sovietico, i salari sono più che raddoppiati (ad esempio in Lituania cresciuti quasi del 280%), mentre in altri, in particolare in Europa meridionale, il miglioramento è stato più contenuto. In Italia, in particolar modo, per anni i salari medi annuali hanno registrato oscillazioni minime, e inoltre nel passaggio tra il 2019 e il 2020 hanno visto un calo che li ha riportati al di sotto dei livelli del 1990. Negli ultimi 30 anni quindi l’entità della retribuzione in Italia è diminuita del 2,9%. Si tratta dell’unico paese europeo Ocse ad aver registrato in questo senso una tendenza negativa. In questo quadro, c’è poco da brindare.

Occorre, invece, chiedersi come ci si può agganciare ad una crescita di lungo periodo aumentando la produttività. Tanto la Nadef quanto l’Economic Outlook sono poco espliciti su questo punto. Più chiaro lo studio della Confcommercio che punta molto su una efficace ed efficiente attuazione delle riforme e degli investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

I tre lavori – altro aspetto poco lieto e un po’ trascurato dalla stampa – è la disoccupazione che in Italia nel 2022 toccherà il’11.6%-12%. Secondo la Nadef ed il Fondo Monetario, l’inflazione resterà invece sotto controllo: secondo il rapporto, si attesterà all’1,7% nel 2021 e all’1,8% nel 2022. Esprime dubbi e preoccupazione in materia il lavoro della Confcommercio.

Su questa testata abbiamo più volte sostenuto che gli aumenti dei prezzi appaiono come un fenomeno temporaneo attribuibile in gran parte a strozzature della catena dell’offerta a cui si sta cercando di porre rimedio. Tuttavia, prudenza insegna che occorre esaminare i dati con cura per alcuni mesi. Unicamente alla fine dell’anno, potremo dire se gli aumenti dei prezzi rientreranno nel breve termine o se invece continueranno stimolando una reazione delle autorità monetarie. Tale reazione sarebbe particolarmente pericolosa per l’Italia a ragione dell’alto debito della pubblica amministrazione e relativi interessi.

Nessuno dei tre documenti tratta degli effetti sull’Italia della segmentazione del commercio mondiale. Vedremo se questo punto sarà sviluppato dal CSC. In breve, il commercio internazionale dalla fine della seconda guerra mondiale a tempi relativamente recenti aveva l’unico obiettivo di promuovere efficienza produttiva e crescita economica. Da circa un quarto di secolo – analizza con acume uno studio dell’Economist Intelligence Unit – gliene vengono dati sempre di più, creando un ingorgo da sovraccarico: assicurare l’applicazione del diritto del lavoro tramite l’attuazione delle regole delle principali convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro; promuovere sani principi ambientali; frenare il cambiamento climatico; essere arma militare come strumento di ritorsione, per non citare che quelli salienti. La macchina si è ingolfata. Non si organizzano più grandi “round” multilaterali. Pullulano gli accordi multilaterali e la segmentazione del commercio con effetti negativi sul suo tasso di crescita. Da sola, l’Italia può fare poco, perché nell’Unione europea la politica commerciale è gestita dalla Commissione europea su indirizzo dei ministri dei 27 Stati membri.

Ma per l’Italia, Paese trasformatore ed esportatore, un rallentamento del commercio mondiale sarebbe un grave danno.

Commercio mondiale e inflazione minacciano le previsioni per l’economia italiana

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