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C’è un delicato equilibrio, non chimico ma alchemico, fatto di matematica e matemagica, nella scelta del nuovo capo dello stato. Esso forse potrebbe trovare una quadratura in Draghi al Colle e Casini a Palazzo Chigi.

È sempre stato così, ma mai come questa volta l’elezione del presidente della repubblica in Italia riguarda la doppia esigenza di bilanciare i bisogni interni con quelli internazionali. Le necessità esterne sono: dare garanzie di stabilità economica e politica del Paese in un momento di grande volatilità globale, con crisi in tutto il continente euroasiatico, e un Covid diventato endemico. Le esigenze interne invece sono di ridare spazio alla politica italiana che affronti i tanti temi strutturali del paese dopo la parentesi del governo di Mario Draghi.

Il punto di equilibrio delle due esigenze oggi si trova in un nome, quello dello stesso Draghi che dovrebbe passare da palazzo Chigi al Quirinale.

Ciò è perché, piaccia o meno, giusto o sbagliato che sia, i mercati si fidano di Draghi e vogliono che garantisca la continuità di applicazione del Pnrr. In questo anno i partiti o altri candidati avrebbero potuto porsi come alternativa al presidente del consiglio, ma non lo hanno fatto. Quindi nessuno altro offre all’estero le garanzie di Draghi.
Per questo, egli dovrebbe rimanere a palazzo Chigi, dicono alcuni. Ma questo è impossibile.

Sergio Mattarella ha annunciato che non può essere rieletto, ciò rompe la prima gamba su cui si regge il delicato equilibrio di questo governo, scelto proprio insieme all’attuale presidente della repubblica. La seconda gamba viene meno se un presidente diverso da Draghi viene eletto con una maggioranza diversa da quella che regge l’esecutivo. Sarebbe la fine della già debole coalizione attuale.

Quindi nei fatti per mantenere Draghi come garanzia internazionale bisogna spostarlo al colle più alto. Chi non vuole questa soluzione oggi doveva pensarci un anno fa. Avrebbe dovuto promuovere altre personalità per dare garanzie al mondo come e meglio di Draghi.

Senza Draghi, con l’inflazione in aumento ovunque, tensioni politiche internazionali che si riverberano in Italia, i mercati potrebbero spaventarsi. Potrebbero fare alzare i tassi di interesse e in poche settimane, o forse solo pochi giorni, l’Italia si troverebbe in bancarotta come la Grecia di qualche anno fa.

Alcuni rappresentanti dei partiti pensano che sia impossibile, che l’Italia è troppo grande per essere lasciata fallire e ciò creerebbe una crisi finanziaria internazionale. Forse è così, ma forse anche no. Diversamente da un decennio fa, quando il mondo era in pace e la crisi finanziaria del 2008 era l’unica grande turbativa, oggi c’è grande confusione.

C’è una nuova Guerra Fredda sulla Cina, ci sono tensioni in aumento lungo ogni asse che tocca la Russia, c’è un aumento dei prezzi delle materie prime, gli Usa sono divisi in aspre lotte partigiane, e su tutto impazza il Covid.
Allora, come può il mondo sbracciarsi per cercare di salvare un’Italia che intanto si è sbarazzata dell’uomo che, per merito o per fortuna, ha fatto rimbalzare la crescita del Pil del 6%?

È una narrazione, che come tutte le narrazioni ha elementi di falso? Forse è così, ma chi si oppone a tale versione dei fatti non ha fornito una storia alternativa convincente come e più dell’attuale.

Tale esigenza esterna poi coincide con una interna. I partiti devono riprendersi le loro responsabilità e ricominciare a fare grande politica. Se Draghi, un “tecnico”, va al Colle, il parlamento deve riprendere la sua centralità in quanto organo rappresentativo della nazione. Ci sarebbero buoni argomenti per volere sciogliere le camere e andare al voto anticipato. Troppo è cambiato in questi anni e questi partiti non rappresentano più la realtà del Paese.
Ma c’è un’ampia maggioranza di parlamentari che non vuole andare al voto e sono i partiti alla fine che sciolgono le camere.

In questo caso occorre pensare a qualcuno a palazzo Chigi che abbia caratteristiche diverse da Draghi, un personaggio più radicato nel parlamento, che conosca uno per uno deputati e senatori e così garantisca una fluidità di colloquio, tanto più necessario con Draghi al colle.

Questi potrebbe essere Pier Ferdinando Casini. Eletto nel centrosinistra ma proveniente e apprezzato dal centrodestra, potrebbe finire di comporre la delicata alchimia di questo doppio passaggio. Il nome di Casini è anche circolato come candidato al Quirinale, quindi, si obietta, perché non mandarlo al Colle e tenere Draghi al governo? Per le personalità degli uomini, che determinano, come in alchimia o in matematica, come non sia indifferente mettere una cifra a numeratore o denominatore.

Draghi non ha nelle corde la rotondità delle conversazioni a 360 gradi con i partiti, che invece ha Casini. Essa è necessaria sempre, ma tanto più in un momento in cui i partiti vogliono conciliare esigenze inconciliabili in teoria, rimanere al governo ma entrare in campagna elettorale per il voto che si terrà a fine ’22 o inizio ’23.

Così rovesciare numeratore e denominatore renderebbe forse irrisolvibile la frazione. Inoltre con Casini, uomo storico e di continuità della politica, sostanzialmente super partes, il parlamento riprenderebbe la sua centralità e affronterebbe le tante riforme necessarie.

Sono tutte ipotesi, basate su probabilità. Non sono certezze matematiche, ma prudenti calcoli di probabilità. Chiunque può avere dubbi, legittimi, e cercare soluzioni diverse a questa “frazione”. Il rischio forse però è che spostandosi da questa formula i rischi aumentano.

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