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Jerome Powell, presidente della Fed, dopo l’ultima riunione a metà di giugno (15-16) del Fomc, il comitato che decide la politica monetaria degli Stati Uniti, ha dichiarato che i tassi non saranno toccati fino al 2023. Quest’annuncio, fatto per rassicurare i mercati, non è apparso, però, molto convincente. Secondo Bloomberg alla luce dei dati sull’inflazione e sul ristagno dell’occupazione, è poco credibile, infatti, mantenere i tassi di interesse a zero e 120 miliardi di acquisti di titoli al mese per altri due anni, in un contesto come quello attuale dell’economia Usa, con il tasso di inflazione dei prezzi al consumo al 5%, registrato nel maggio scorso, quello dei beni importati all’11,3%, mentre oltre 15 milioni di americani ancora dipendono da sussidi federali.

Si tratta di dati che confliggono con quanto detto da Powell e che spingono a pensare che potrebbero esserci presto dei ripensamenti per quanto riguarda l’aumento dei tassi. Nel frattempo i mercati stanno lentamente premiando questa prospettiva, facendo acquisire più valore al dollaro nei confronti dell’euro. Si può pensare che la Fed, avendo per mandato non solo di perseguire la stabilità dei prezzi, ma anche di favorire la crescita del reddito e dell’occupazione, punti a non interrompere il suo programma di acquisti di titoli, per evitare che si creino condizioni ancora più difficili per l’assorbimento della disoccupazione. Potrebbe però, tra poco, trovarsi a dover scegliere tra Scilla e Cariddi frenare l’inflazione, e tenere alta la disoccupazione, rischiando la stagflazione, oppure continuare a finanziare l’economia con periodici aumenti di liquidità, guardando, non tanto all’aumento dei prezzi, ma alla riduzione del tasso di disoccupazione, peraltro in lieve discesa, al 5.8% nel mese di aprile scorso.

Va da sé che quanto farà la Fed influenzerà le decisioni della Bce. Nell’eurozona, nel maggio scorso, l’inflazione è stata al di sotto del 2%, mediamente dell’1,98%, in Germania, al 2,5%, mentre In Italia e Francia nello stesso mese è stata rispettivamente dell’ 1,26% e dell’1,42%. Aumento entro i limiti consentiti, che non dovrebbe preoccupare per il momento le autorità, fermo restando, però, che se la Fed fa la mossa di aumentare i tassi, anche la Bce, dovrà rispondere, tenendo sotto controllo, tra l’altro, l’apprezzamento del dollaro sull’euro. Con un differenziale positivo tra tassi americani ed europei, la moneta americana tenderà ad apprezzarsi, per via dell’incentivo a investire negli Usa, offerto dal miglior rendimento dei titoli.

Come detto, l’inflazione nell’eurozona è al momento nei limiti, e il Piano straordinario europeo, il NgEu, ha appena preso l’avvio, e quindi si dovrà attendere almeno un anno per cominciare a vedere in Italia qualche risultato. Avendo l’Italia, un rapporto debito pubblico/Pil al 160%, deve puntare sull’aumento del Pil per mantenere la sua sostenibilità. Se le condizioni internazionali spingessero la Bce ad aumentare i tassi d’interesse, sarebbe molto complicato il raggiungimento di quest’obiettivo, col rischio di far ripartire la crescita dello spread con i titoli tedeschi, che peserebbe non poco sul bilancio dello Stato, compromettendo la ripresa.

Guardando più da vicino a queste prospettive, ci sono due questioni prioritarie che s’intrecciano: la prima riguarda la politica monetaria del Qe fin qui seguita dalla Bce, la seconda riguarda la politica fiscale e l’integrazione del Trattato di Maastricht. Ed è un intreccio che sarebbe controproducente non affrontare. L’esempio di unità che è stato dato dai Paesi dell’Unione per fermare la pandemia, è auspicabile che si ripeta in questa fase, ora che si tratta di consolidare quanto fatto.

Seppure gradualmente, l’Unione dovrà dotarsi di una politica fiscale comune. Ne esistono le premesse, titoli e imposte comuni, favorite dal Recovery Fund. Il suggerimento di trasformarlo in piano ordinario, potrebbe costituire un passo fondamentale nella direzione auspicata. Qualche mese fa il Presidente del Parlamento Europeo, Sassoli, ha posto il problema del nuovo debito creato dai Paesi dell’Unione per affrontare le conseguenze della pandemia. Il suo intervento, giudicato da alcuni intempestivo, ha avuto il merito di richiamare anticipatamente l’attenzione sul problema principale del post pandemia e sui rischi impliciti che ne derivano, se non affrontato tempestivamente e soprattutto congiuntamente.

L’inflazione che si affaccia all’orizzonte negli USA, spinge l’Unione ad accelerare i tempi e ad affrontare da subito questo problema e i nodi istituzionali che la sua soluzione comporta. La politica del rinvio non gioverebbe né alla soluzione del problema né alla stabilità dell’Unione.

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