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È innegabile, per tanti motivi, che ci sentiamo abbastanza fuori dalla crisi sanitaria. I rischi di una ricaduta sono realtà, la guardia non deve essere abbassata ma… la nostra mente e il nostro cuore hanno bisogno di evasione, come anche di un ritorno a relazionarci in maniera normale.

Ci sono state negate molte cose, in termini di contatti con gli altri e ora vogliamo riempire alcuni vuoti. Lo facciamo perché è cresciuto il “bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana” (Francesco, FT 43). Le relazioni sono tutt’altro che liquide, con buona pace di Zygmunt Bauman. La liquidità è solo uno degli aspetti interpretativi della nostra società. Accanto ad essa ci sono altri, come la rigidità, lo scontro, il fondamentalismo, la violenza e la guerra, la chiusura, il razzismo, il profitto, la precarietà della salute e la tecnologia: tutti aspetti che hanno ben poco di liquido. Molte delle nostre relazioni, in quest’ultimo anno sono state affidate alla tecnologia: telefono, videochiamate, social, piattaforme per lavoro, lezioni, incontri e conferenze, tv digitale e cosi via.

Senza volerlo un po’ abbiamo ricalcato una tesi classica. Ricordiamo che nel 1964 Marshall McLuhan diede alle stampe il suo Understanding media. Per quanto siano superate alcune analisi specifiche sui mezzi di comunicazione sociale, la tesi di fondo del volume resta straordinariamente valida. Essa è sintetizzata dall’affermazione che apre il volume: “Il medium, il mezzo è il messaggio”. Per l’autore il “mezzo” era fatto di stampa, radio, cinema, televisione, telefono; aggiungeremmo oggi rete telematica, WhatsApp e social. Normalmente il messaggio è il contenuto che si vuole comunicare attraverso un mezzo; esso è cognitivo ed emotivo. Da diversi decenni, invece, l’attenzione si sposta sempre più sui mezzi e meno sul messaggio. Per McLuhan ciò ha delle conseguenze pratiche, psichiche e sociali, dell’uso dei media oggi. In questo ambito il “mezzo diventa messaggio” in quanto introduce un “mutamento di proporzioni, di ritmo o di schemi nei rapporti umani”. Un po’ di tutto questo è anche successo durante la pandemia.

Infatti un mutamento, se pur piccolo, ci è stato e a vari livelli. Partirei da coloro, che un po’ precipitosamente e sprovvedutamente, hanno iniziato ad affermare che la vita su piattaforma costituirà la maggior parte del nostro futuro lavorativo, scolastico, accademico e persino familiare, amicale e comunitario. Questa affermazione darebbe perfetta ragione a McLuhan: i mezzi che usiamo hanno sostituito i significati delle relazioni. Per cui tutto quello che prima era sostanza – fisicità, sentimenti, idee, contatto fisico – si appiattisce sull’incontro on line, si riduce a un surrogato di realtà e, per qualcuno, diventa realtà sufficiente e soddisfacente.

Quello che abbiamo vissuto su piattaforma andrebbe, invece, sanamente inquadrato nel “meglio la piattaforma, il telelavoro, la DAD o la videochiamata di niente”. Le relazioni, su base tecnologica, sono infatti rischiose per i significati. Raramente ne producono di nuovi e spesso riducono o svuotano i significati esistenti. Ancora Francesco: “I rapporti digitali, che dispensano dalla fatica di coltivare un’amicizia, una reciprocità stabile e anche un consenso che matura con il tempo, hanno un’apparenza di socievolezza. Non costruiscono veramente un “noi”, ma solitamente dissimulano e amplificano lo stesso individualismo che si esprime nella xenofobia e nel disprezzo dei deboli. La connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità” (FT, 43).

Allora come riscoprirli o crearli i significati delle relazioni del post pandemia? Prima di tutto riducendo al minimo, quasi a zero (dove possibile) i rapporti telefonici e digitali; incontrandoci e dedicandoci del tempo nel raccontarci come abbiamo vissuto il tutto (lo abbiamo già fatto on line, ma di persona ha ben altro valore), tessendo significati comuni con un dialogo paziente e una sete di conoscenza. Il sapere è sempre un prodotto collettivo, frutto non di uno ma di molti che lavorano insieme. Tanto possono fare in materia tutti i luoghi di aggregazioni (associazioni, comunità di fede religiosa, gruppi di amici).

I significati, inoltre, non si inventano; vanno attinti al nostro patrimonio umano comune: moltissimo fanno le letture, il contatto con la natura, per chi può i viaggi dove, non solo si visitano posti, ma si incontrano persone che ci possono arricchire… anche a pochi chilometri da casa!

Scriveva Mounier, negli anni ’30: “Le società possono moltiplicarsi, le comunicazioni possono riavvicinare i membri, ma non è possibile comunità alcuna in un mondo in cui non c’è più un prossimo e dove non rimangono che dei simili, e dei simili, che non si guardano… Così si mostra definitivamente l’impossibilità di fondare la comunità schivando la persona, fosse anche sulla base di pretesi valori umani, disumanizzati in quanto spersonalizzati. Noi riserveremo allora il nome di comunità alla sola comunità alla sola comunità valida e solida, la comunità personalista, che è, più che simbolicamente, una persona di persone”.

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Come riscoprire o crearli nuovamente i significati delle relazioni del post pandemia? Dalla liquidità di Bauman alla teoria di McLuhan, fino alle parole di papa Francesco in Fratelli tutti, la riflessione di Rocco D’Ambrosio, presbitero della diocesi di Bari, ordinario di Filosofia Politica nella facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma

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