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La decisione del presidente statunitense Joe Biden di elevare la lotta alla corruzione a questione di sicurezza nazionale? “Una scelta giusta alla luce della crisi delle democrazie e dell’ascesa dei regimi autoritari”. Parola di Kathleen Doherty, diplomatico statunitense di carriera, già ambasciatrice a Cipro e numero due a Roma, oggi chief strategy and retreats officer della Annenberg Foundation Trust at Sunnylands e consulente dell’Albright Stonebridge Group.

Durante un colloquio con Formiche.net, Doherty individua due ragioni dietro la scelta del presidente Biden. La prima: “seguire i flussi di denaro illecito è un modo per rafforzare l’accountability di autocrati e cleptocrati che si appropriano del denaro dei loro cittadini”, dice con riferimento alla Russia di Vladimir Putin in particolare. La seconda: la lotta alla corruzione è cruciale per “evitare di diventare anche noi dipendenti dal denaro sporco alimentando un pericoloso circolo vizioso”.

A febbraio la rivista Foreign Policy aveva pubblicato un paper in cui l’ambasciatrice sosteneva la necessità per gli Stati Uniti di coinvolgere l’Europa nella lotta alla corruzione globale. L’ex diplomatica indicava sei punti: impegno ai massimi livelli per aumentare le risorse per gli inquirenti; maggior addestramento, anche congiunto, dei funzionari statunitensi ed europei; miglior utilizzo del trattato di assistenza legale reciproca tra Stati Uniti e Unione europea già in vigore; coinvolgimento del Regno Unito; collaborazione nelle valutazioni congiunte delle minacce e dei rischi per affrontare argomenti come i pagamenti internazionali utilizzando il correspondent banking; allargare la discussione oltre le società di comodo per includere, per esempio, il ruolo giocato da private equity, hedge fund e settore immobiliare nel riciclaggio di denaro.

Oggi il messaggio che arriva da Washington a Bruxelles a una settimana dal viaggio in Europa del presidente Biden per il G7 e per il vertice con i leader europei è chiarissimo: “Se siamo forti, o deboli, è perché lo siamo assieme”, spiega l’ambasciatrice Doherty sottolineando l’importanza di un coordinamento transatlantico su questo specifico dossier visto che “il denaro si muove molto facilmente”. Ragione per cui le iniziative transnazionali e nazionali non bastano: ne servono di “locali”, prosegue. Tra Stati Uniti e Unione europea si stima che ogni anno vengano ripuliti almeno 550 miliardi di dollari di denaro sporco.

E l’impegno richiesto dagli Stati Uniti all’Unione europea sulla lotta alla corruzione è ben fotografato da quanto accaduto alla vigilia dell’annuncio del presidente Biden: la sua amministrazione ha applicato sanzioni contro tre cittadini bulgari e 64 società a loro associate per corruzione. Congelamento di tutti i beni negli Stati Uniti e il divieto di ingresso nel Paese in quella che il dipartimento del Tesoro ha definito la mossa la “più grande azione contro la corruzione” contro quello che secondo il gruppo Transparency International è lo Stato dell’Unione europea più corrotto. Per questo, il Paese balcanico è stato criticato diverse volte dalla Commissione europea, che però, come ha evidenziato Politico, non appare in grado di fermare la spirale in cui sono finiti inghiottiti, e da lì nelle mani delle mafie locali, anche milioni di euro in fondi dell’Unione europea.

“Anche l’Italia” è interessata da questo fenomeno criminale, sottolinea l’ambasciatrice. Ma il nostro Paese può avere un ruolo fondamentale in questa fase, grazie ai buoni rapporti tra il presidente del Consiglio Mario Draghi e l’amministrazione Biden, ma anche vista la presidenza del G20. La corruzione è un fenomeno trasversale rispetto a tutti i temi globali, “dal clima alle infrastrutture”, evidenzia Doherty.

E se “la grande sfida” degli Stati Uniti “è la Cina”, “una nazione in ascesa che cerca un ruolo globale” come spiega l’ambasciatrice, non possiamo non parlare con lei della Via della Seta. Dall’attuazione in Africa del progetto espansionistico voluto dal presidente Xi Jinping sono già emersi casi di corruzione e problemi legati agli appalti, ricorda citando un recente rapporto della Global Initiative Against Transnational Organized Crime e invitando l’Italia alla “prudenza”.

E lo stesso dice parlando di tecnologia, in particolare di 5G, e osservando le mosse italiane ed europee nei confronti delle aziende cinese Huawei e Zte, accusate dall’intelligence statunitense di spionaggio per il governo di Pechino: “I costi a lungo termine di essere dipendenti da un singolo fornitore, per qualsiasi Paese, sono molto alti, a partire dall’impossibilità di negoziare il prezzo”. La soluzione? “Più collaborazione transatlantica per sviluppare nuove tecnologie, guardando oltre il 5G, pensando al 6G, all’intelligenza artificiale e così via”.

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