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C’è chi lo ha definito un ballottaggio, chi un derby, chi un testa a testa. Il giorno dopo l’ennesimo buco nell’acqua sulla vicenda Roma – con il centrodestra costretto nuovamente a rimandare la decisione (si saprà tutto martedì prossimo, giurano i protagonisti) – i principali quotidiani hanno fotografato lo stallo in corso da settimane, anzi da mesi, nella città eterna soprattutto in termini di competizione ormai ridotta a soli due concorrenti: l’avvocato Enrico Michetti da un lato e il magistrato Simonetta Matone dall’altro, con il primo al momento abbastanza chiaramente favorito sulla seconda (le foto dei due possibili candidati qui e qui).

In realtà, però, c’è di più. Molto di più. Ovvero, l’incapacità – che appare ormai quasi cronica del centrodestra italiano – di assumere decisioni che siano condivise e tempiste. Certo, Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia già in passato hanno dato prova di sapersi ricompattare al momento giusto, anche in presenza di momenti di rottura non indifferenti – si pensi all’anno di esecutivo gialloverde, con la scelta di Matteo Salvini di salutare temporaneamente gli alleati e di andare al governo con i cinquestelle – ma tutto questo non si può dire che sia stato sempre senza conseguenze dal punto di vista elettorale.

Basti pensare a cos’è accaduto lo scorso autunno: la vittoria ritenuta quasi scontata alle regionali d’ottobre si trasformò alla fine in una sconfitta per il centrodestra, che in quell’occasione vinse in sole tre regioni su sette – Veneto, Liguria e Marche – mentre Valle d’Aosta, Toscana, Campania e Liguria andarono al centrosinistra. Un copione che rischia di ripetersi, ma ancor più in negativo, in occasione delle prossime amministrative, quando andranno al voto gli elettori di circa 1.300 comuni italiani tra i quali anche Torino, Milano Bologna, Roma e Napoli.

In almeno tre di queste città la coalizione si presenterà alle urne senza i favori del pronostico (discorso leggermente diverso a Torino dove la candidatura dell’imprenditore Paolo Damilano è considerata forte): a Milano perché l’uscente e già ricandidato Beppe Sala è molto forte, a Napoli perché non ci sono mai stati finora da quelle parti primi cittadini di centrodestra, a Bologna perché è difficile immaginare che ci possa essere un altro Giorgio Guazzaloca.

A Roma, invece, sembrava che le cose potessero andare diversamente, che il centrodestra fosse davvero in grado di arrivare da favorito al voto, un po’ per il suo radicamento in città e un po’ per le condizioni di contesto favorevoli: le difficoltà oggettive della ricandidatura di Virginia Raggi – cui pure vanno riconosciute la coerenza e la forza con le quali è rimasta in campo a discapito di tutto e di tutti, le divisioni nell’ambito del centrosinistra con la scelta di Carlo Calenda di andare da solo (ma insieme a Italia Viva) e, in ultimo, pure le polemiche nel Pd per la mancata corsa di Nicola Zingaretti.

Fattori che però rischiano di essere vanificati da questi estenuanti mesi di melina e di scontri, o comunque di disaccordi, più o meno sottotraccia, tra i partiti e negli stessi partiti. E quindi, ad esempio, tra Lega e Fratelli d’Italia, in una competizione che in parte è nazionale, in parte cittadina e in parte addirittura proiettata alle prossime elezioni per la Regione Lazio che però, salvo sorprese, dovrebbero svolgersi nel 2023. C’è chi dice a questo proposito che nessuno dei due partiti voglia intestarsi la scelta del candidato sindaco di Roma per poter vantare poi una sorta di diritto di prelazione alla regione, per la quale Meloni vorrebbe schierare il capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida e Salvini, almeno sicuramente fino a qualche tempo fa, il sottosegretario all’Economia e alle Finanze Claudio Durigon.

Il tutto mentre Forza Italia continua ad avere qualche nome di rilievo da spendere nel dibattito – si pensi a Guido Bertolaso che dopo essere stato tirato per la giacchetta per mesi ha serenamente declinato – pur vivendo un’evidente situazione di crisi. Incalzata da Coraggio Italia di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, in lento ma inesorabile calo sotto il profilo elettorale e ormai sempre più residuale sul territorio e nella vita politica romana, considerato che non esprime più neppure un rappresentante in Assemblea Capitolina (alla Pisana è rimasto invece un solo consigliere, Giuseppe Simeone, eletto però nel collegio elettorale di Latina).

Constatazioni che non possono non suonare come un chiaro campanello d’allarme per il centrodestra: bene o male, si tratta pur sempre di una coalizione che in occasione delle prossime politiche – a prescindere dai rapporti di forza interni – può con buone ragioni ambire a raggiungere il governo del Paese. Vincere aiuta a vincere, però (come a suo tempo dimostrarono i cinquestelle proprio a Roma). E incassare una netta sconfitta alle amministrative non rappresenterebbe, di sicuro, in questo senso un viatico positivo.

Il timore che questo scenario possa concretizzarsi ha iniziato piano piano a farsi largo. Ad esempio sul Corriere della Sera di stamattina si parla testualmente di tensione in casa centrodestra per il pericolo che alla fine possa finire con un 5 a 0 a favore del centrosinistra. Preoccupazione espressa pure da Francesco Storace, non certo una figura dalla storia politica equivocabile: dalle pagine del Tempo l’ex governatore della Regione Lazio ha evidenziato il rischio che gli elettori romani di centrodestra – di fronte alla scarsa convinzione e al traccheggiare dei partiti – scelgano di votare Calenda. “Non arrivare al ballottaggio sarebbe davvero terribile”, ha chiosato Storace.

Come si dice in questi casi, uomo avvisato mezzo salvato.

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