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Per il suo primo viaggio nel mondo occidentale, il primo ministro libico, Abdelhamid Dabaiba, ha scelto due tappe fondamentali: prima Roma, poi Parigi. Italia e Francia sono in fase di reset nelle relazioni/competizioni su Nordafrica e Sahel (leggasi anche Mediterraneo allargato), consapevoli che una linea comune possa essere più efficace. Tripoli, dove Dabaiba guida sotto egida Onu il Governo di unità nazionale, è un test anche per questo.

Il libico arriva a Roma in testa a una folta delegazione di ministri e uomini di sottogoverno, e incontrerà i vertici dell’esecutivo italiano, a cominciare dal presidente del Consiglio Mario Draghi. Come sottolineato dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio — che nei giorni scorsi era a Tripoli con il collega maltese e il commissario Ue per parlare soprattutto di immigrazione — molto rilievo lo avrà il Business Forum, organizzato dalla Farnesina.

I libici in effetti hanno la consapevolezza che la ripresa economico-produttiva, un rilancio tecnologico (con un pensiero necessario alla transizione energetica) la stabilizzazione delle problematiche sociali collegate, siano gli elementi  determinanti per trovare quella pace e prosperità bramata. In questo, il ruolo dell’Europa è potenzialmente indispensabile; e qui l’Italia è in prima fila.

Federica Saini Fasanotti, storica della Brookings Institution ed esperta di policy sulla Libia, ricorda il rapporto speciale tra Roma e Tripoli già dai tempi di Gheddafi; il Trattato di amicizia e partenariato del 2008 sotto il governo Berlusconi è un esempio recente spesso citato, ma ancora prima ai tempi di Craxi le relazioni era buone. “Credo in effetti che il più grande errore di Gheddafi fu mandare via in un battito d’ali una comunità italiana di ventimila persone che era fondamentale per l’economia libica e che avrebbe costituito la base per lo sviluppo del settore privato, che invece in Libia non si è mai sviluppato”.

E adesso? “La buona volontà da parte di tutti è ottima — risponde Saini Fasanotti a Formiche.net — ma continuo a vedere un cielo abbastanza plumbeo sui cieli libici. Non c’è ancora una base costituzionale per le elezioni del 24 dicembre; c’è il problema del decidere se le elezioni presidenziali debbano essere dirette o meno, e c’è un’élite radicata e con in mano il Paese da tempo che non vuole mollare sul voto diretto. A ciò si aggiunge ancora il tema della sicurezza: pilastro fondamentale che non riguarda soltanto gli attori esterni, che per certi versi forniscono una sorta di stabilità in fondo, ma parlo delle milizie interne. Come gestirle? Chi ci dà la garanzia che le elezioni saranno svolte in maniera sicura? Chi presidierà i seggi? Chi tutelerà la popolazione? Non esiste una forza di sicurezza reale, come sappiamo: e dunque, cosa succederà davanti ai risultati elettorali?”.

Problemi di cui il governo Dabaiba, impegnato ad accreditarsi all’estero in visite come quelle a Roma, Parigi, Ankara o Mosca, sta cercando di affrontare, con un’altra irrisolta questione interna: il potere — ancora forte, muscolare come dimostrato dalla recente parata militare — di cui gode a Bengasi il capo miliziano Khalifa Haftar. “Il ruolo di Dabaiba è quello di organizzare le elezioni convocate dall’Onu per il 24 dicembre, e di farlo gestendo l’ordinaria amministrazione, raccontando una quiete anche migliore della situazione reale, e magari portando in dote qualche risultato spendibile per il futuro”, commenta Karim Mezran, responsabile della North Africa Initiative dell’Atlantic Council.

Mezran concorda con Saini Fasanotti sul fatto che le elezioni siano il passaggio cruciale: “Molti dei politici più importanti, come Fathi Bashaga o Ahmed Maiteeg (rispettivamente ex ministro e vicepresidente del governo onusiano precedente, ndr) per fare due nomi, sono restati fuori dal governo attuale perché si stanno organizzando per la corsa elettorale. La situazione è ancora molto frammentata, il reale potere è in mano a entità diverse, in parte l’Onu, in parte turchi e russi, in parte gli interlocutori occidentali, o ancora le milizie”. Siamo a giugno e ancora manca l’approvazione generale del budget, necessario per far ripartire effettivamente il Paese e approvato solo per l’aliquota che riguarda il pagamento degli stipendi pubblici: più di un indizio di questa frammentazione, che rappresenta una preoccupazione se qualcosa con il voto dovesse andare storto.

La stabilità della Libia è ancora vincolata alla presenza sul campo dei mercenari russi e turco-siriani e delle milizie, e in questo momento Tripoli non riesce a imporre ritiri e dissoluzioni a certe forze. “In questo — secondo Arturo Varvellidirettore dell’European council on foreign relations (Ecfr) di Roma — Europa e Stati Uniti devono dimostrare vicinanza alla Libia, sganciandola da certi attori che, come la Turchia, potrebbero essere in un certo senso istituzionalizzati nel quadro di una missione internazionale che accompagni il Paese verso le elezioni”.

“Un primo passo sarebbe proprio una missione internazionale di cui farebbero parte anche consiglieri militari e che avrebbe l’obiettivo di aiutare le istituzioni libiche”, propone Varvelli, ricordando che nel Paese esistono ancora sacche di resistenza come l’organizzazione haftariana in fase di “tregua strategica”. “Per la stabilità della Libia — continua Varvelli — l’Italia deve giocare le sue carte sul piano economico perché su quello della sicurezza le difficoltà sono varie e i mezzi messi in campo scarsi. Anche come Ue. Ma sul rilancio socio-economico Roma può avere un ruolo importante, con l’Eni per esempio che può essere un’arma per riattivare la macchina petrolifera libica e per lanciare il paese verso le nuove energie”.

 

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