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Robinson-preside, ligio al dovere da quarant’anni, con inalterata volontà, collaudata pazienza e un grammo di autoironia, si è alzato alle ore cinque. Ha aperto le imposte. Era buio. Laggiù il mare stava zitto e piatto. Una notte piuttosto calda gli ha tolto il sonno. Solo poche ore. Un impegno serio lo attende. Il dovere lo chiama. Il ministero pure. Doccia, moka sul gas, giacca e cravatta.

Robinson-preside ha passato l’estate senza ferie. Come una estate fa. Come da tempo. Da anni cerca nuove aule che non ci sono. Che non arriveranno. Invece giungono richieste di iscrizioni di minori senza un posto, senza un banco. Ancora a settembre.

Sapeva, qualora si fosse permesso di sbagliare giorno, grazie al tamburellare dei TG, delle centinaia di esperti tracimanti dalla tv e dalla rete, che il 13 settembre (data della penultima apparizione di Fatima nel 1917), quest’anno, corrispondeva con il ritorno a scuola di circa otto milioni di alunni. Ha pensato, per un attimo, come sarebbero stati felici, Francesco e Giacinta Marto, di tornare a scuola invece di andarsene, per via del Covid-19 di allora, che si chiamava “spagnola”. Tristi pensieri, via. Il caffè, corretto con soia alla vaniglia, è sceso giù riportandogli l’ottimismo.

Alle 6.50 Robinson-preside, da buon soldato, apriva la scuola prima dei collaboratori scolastici (bidelli). “Meglio essere in anticipo – ha pensato da obbediente fante di trincea -, forse ci sarà qualche docente senza Green pass o con il QR del green pass che fa le bizze per la lettura”.

Certo, all’ultimo secondo è arrivata la piattaforma per controllare chi può entrare oppure no, e considerato che bisognava inaugurare una nuova procedura, egli ha deciso per il controllo ad personam, con il suo cellulare. Come aveva già felicemente sperimentato nei due giorni dell’accoglienza delle prime classi. Tutto è filato liscio. Solo un QR cartaceo che non dava verde ma rosso, poi il docente si è recato alla unica farmacia dell’isola, accanto alla scuola, ha ristampato un nuovo codice cartaceo, che ha acceso il verde sul cellulare di Robinson-preside. Tutti i docenti, alle 7.50 potevano varcare la soglia della cultura.

Intanto si formavano i primi gruppetti di ragazzi e ragazze nel cortile. Diversi con mezz’ora di anticipo. Robinson-preside li salutava, man mano che arrivavano, “Buon anno scolastico, ragazze/ragazzi!”. “Buon anno anche a lei preside”. Short, top, la calda giornata, 32 gradi, sembrava una mattina avanzata al signor Luglio. “Mi raccomando, ragazzi, da domani con i pantaloni lunghi, grazie!”. “Ok pre’!”.

La gioia di tornare a scuola è irrefrenabile. È tatuata sui volti e le braccia abbronzati, si adagia sui sorrisi scintillanti al sole, guizza nelle fossette sorridenti delle guance. Una onda di t-shirt colorate dà vita al nero asfalto del cortile. Ognuno con il suo passo, il suo ondeggiare; altri tracciano traiettorie diritte come fusi; le camminate sono una sinfonia di linee e colori, tra Mondrian e Malevich.

Il cielo è di un blu cobalto, quello di settembre, che attendeva Van Gogh, poi scelto dai direttori della fotografia.  L’erba gialla, appena tagliata, del prato vagamente all’inglese, accanto al piazzale asfaltato, ti chiama a sdraiartici sopra. Sul portone tutti fremono per entrare. “Ragazzi siete in prima fila per correre a scegliervi il banco migliore? – chiede Robinson-preside. “Certo preside! Io voglio stare vicino alla finestra, io a metà.” “Nessuno ai primi banchi?” “No, troppo vicino”.

Sono entrati, felici camminano di corsa, gli zainetti, ancora flosci, sobbalzano sulle magre spalle, centinaia di scarpe ginniche si susseguono, il colore bianco spumeggia. Salgono le scale accarezzando rapidamente il marmo. “Piano!” dice Robinson, “piano!”, avvertono i bidelli, “piano!”, aggiungono i prof.

Robinson-preside ha accompagnato i primi otto, ragazze e ragazzi, di una classe, che hanno chiesto di entrare un minuto prima. Poi ha finto di allontanarsi ma è tornato sulla porta per sorvegliarli. Sta arrivando la prof. Indaffarati, non notano Robinson. Hanno occupato tutti i banchi della fila che costeggia la lunga finestra a tre ante, che dà su un prato interno. Lo zainetto troneggia sul piano del banco. È la firma del contratto di proprietà per quest’anno. Gli altri compagni stanno sgommando ancora per le scale. E qualcuno, sicuramente, ritardatario, sta colmando, affannato, l’ultimo tratto tra la fermata del bus e la scuola.

Gli otto, guardano rapidamente fuori dalla finestra, quasi ad assicurarsi che il cielo blu continui oltre l’altra ala dell’edificio. Come animali annusano il terreno intorno al banco, tastano le mattonelle con le belle scarpe bianche, ridono, parlano, aggiustano la sedia davanti al banchetto, aprono le ante (come raccomanda il ministero). Ancora ridono, parlano, si guardano. Si muovono quasi danzando. Sono troppo felici.

La veduta, niente di sconvolgente. Questo secondo prato, più malandato di quello di fronte all’ingresso, è spelacchiato e non curato. Con degli alberi malaticci e tristi in fondo, come muro di cinta. Dietro questo sfilacciato paravento le solite palazzine popolari anni Settanta. Periferia di una città di provincia.  Eppure, quel campo, quella barriera incerta a limitare lo sguardo, un giorno saranno lo schermo per figurarsi visivamente Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli e Diego Valeri. Con un tramonto alla Vincenzo Cardarelli. Questi adolescenti vivono d’innocenti risa, di sguardi timidi, di scarnificate vedute pronte a trasfigurarsi. Essi danzano nella poesia. Ma ancora non lo sanno.

(Foto: scena di “Terza liceo” diretto da Luciano Emmer nel 1954)

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