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Il 14 giugno si terrà il summit dei capi di Stato e di governo della Nato a Bruxelles, e sarà sicuramente un’edizione diversa dal “vertice lampo” di Londra, a dicembre 2019. La musica è infatti cambiata, e il gruppo dirigente dell’amministrazione di Joe Biden sembra il più caloroso verso gli alleati da molto tempo a questa parte. Il presidente ha sottolineato la differenza dal predecessore affermando il valore politico delle alleanze e l’importanza per gli Stati Uniti di muoversi in un quadro multilaterale. Ha poi rivendicato nello specifico i profondi legami dell’Alleanza Atlantica e l’importanza di rimetterli a giorno.

Possiamo quindi tirare un sospiro di sollievo con il principio che nessun Paese può vincere da solo le variegate sfide di quest’epoca, dal clima al commercio, dalle tecnologie alla salute. Se guardiamo ai fondamentali, un’alleanza fra nord America ed Europa non può che essere un elemento di stabilità in un mondo in cui si sono moltiplicati attori di ogni genere. Certo, l’applicazione pratica di questo principio non è affatto semplice, e richiede uno sforzo comune affinché funzioni realmente. L’opinione pubblica americana gradisce ancora oggi questo quadro di riferimento; la grande maggioranza dell’establishment militare e diplomatico si manifesta favorevole alla Nato.

Cosa rappresenta il vertice di giugno? Probabilmente un segnale molto visibile di questa “riconciliazione”, del “ritorno americano sul continente europeo”. Barack Obama era partito dal famoso “pivot to Asia”, ma poi si era rivolto sempre più verso gli alleati europei finendo con una visita a Berlino. L’altra domanda-chiave, più specifica, riguarda la struttura della Nato e la sua adeguatezza. Lo scenario internazionale è cambiato molto velocemente, come gli strumenti a disposizione e le aspettative sul futuro. Un processo di revisione sostanziale su procedure e strutture appare necessario. La Nato è vittima del suo successo raccogliendo ben trenta membri. Da qui è inevitabile che vi siano visioni diverse e atteggiamenti regionali. Questo rende più difficile il consenso.

Altrettanto vero che con l’andar del tempo la componente militare è cresciuta, diventando prevalente. È arrivato il momento di ridare all’Alleanza quella grande dimensione politica che è andata scemando. Ciò significa maggiori consultazioni, discussioni più libere sui grandi temi strategici, preparazione in modo accurato per giungere ad un consenso realmente condiviso.

Anche l’aspetto della competenza geografica è diventato rilevante per l’importanza dell’Indo-Pacifico come conseguenza del fatto che il rapporto con la Cina è diventato centrale. Come potrà la Nato rapportarsi a questa visione? Con dei partenariati con Paesi come l’Australia, il Giappone o la Corea? Il problema è aperto. Nel 2020 un “gruppo di riflessione” ha svolto un lungo lavoro preparatorio. Il rapporto è stato consegnato al segretario generale che ora dovrebbe trovare una sintesi e fare proprie proposte al summit. Vedremo il seguito, che potrebbe avere conseguenze sul mandato di Jens Stoltenberg, in scadenza il prossimo anno. Una candidatura italiana sarebbe decisamente opportuna cinquant’anni dopo Manlio Brosio.

Questa è solo metà della storia. L’afflusso di forze russe sul confine ucraino ci ha ricordato che certi problemi non finiscono mai. I rapporti con la Russia rimangono in primo piano. Sembra di essere tornati a una copia della guerra fredda in cui la deterrenza della Nato si alternava a vertici fra i leader. La presidenza di Vladimir Putin sembra essere entrata in una fase più insicura a cui si fa fronte gonfiando i muscoli. Vedremo. Chi scrive ritiene che non vi sarà una guerra, ma che non convenga replicare all’aggressività russa fornendo armi offensive all’Ucraina.

Rimane il grande tema del mondo arabo e Africa su cui non ci sono, a quanto sembra, grandi novità in arrivo. Il segretario generale non spinge e i partenariati arabi vanno a bassa velocità. Ci vorrebbe un’iniziativa e una visione di largo respiro. Gli Stati Uniti di Biden non sono contrari e forse spetta all’Italia far valere il suo ruolo.

La carta dell'Italia per il vertice Nato. L'analisi dell'amb. Minuto Rizzo

C’è anche l’avvio della corsa al successore di Stoltenberg nel prossimo vertice della Nato. Una candidatura italiana sarebbe opportuna, in un summit già denso di temi: l’assertività russa a est, l’ascesa della Cina e l’Indo-pacifico, fino ai rapporti con l’Africa. Per tutto ciò, l’Alleanza sarà “più politica e globale”. L’analisi dell’amb. Alessandro Minuto Rizzo, presidente della Nato Defense College Foundation

Per una "sana" politica di export della Difesa. Scrive il gen. Camporini

Una sana politica di esportazioni dei sistemi d’arma è funzionale all’autorevolezza del Paese sullo scenario internazionale. L’aggettivo “sana” vuole indicare la necessità di un’attenta valutazione delle tecnologie da esportare, al fine di mantenere il vantaggio che rende durevole la competitività. “Sana” anche in relazione ai destinatari delle esportazioni. Il commento del generale Vincenzo Camporini, consigliere scientifico Iai, già capo di Stato maggiore della Difesa

Il Recovery plan di Draghi e il primo discorso politico di Biden. L'agenda della settimana

Domani, martedì 27 aprile, è previsto il voto di Montecitorio sul Piano, mentre nello stesso giorno il premier bisserà la presentazione al Senato, che voterà il Piano subito dopo. Sul fronte esteri mercoledì il presidente Joe Biden terrà il suo primo discorso politico al Congresso. Nella stessa giornata, sempre a Washington, attesa anche la conferenza stampa del presidente della Fed Jerome Powell, all’indomani della riunione del Comitato di politica monetaria della Banca centrale statunitense

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La scommessa è sulla capacità di operare una presa di coscienza della sua base sociale e di assumere una direzione di marcia capace di disegnare orizzonti chiari, emancipando se stessi e il proprio elettorato. Verso una forma-partito? Certo, ma anche verso un’identità precisa. Che non potrà essere il doppione del Pd. La rubrica di Pino Pisicchio

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Un report del Soufan Center di New York svela: Russia e Cina soffiano e alimentano la propaganda social del complotto QAnon. Arije Antinori, professore di Criminologia e Sociologia della Devianza alla Sapienza di Roma, spiega la strategia di Mosca e Pechino. E cosa rischia l’Italia se non controlla la nuova rabbia sociale

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