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Sono mesi che gli Stati Uniti rimarcano sulla necessità di non mollare nella lotta allo Stati islamico. Il Califfato è stato sconfitto dal punto di vista statuale – non controlla più l’ampia fetta di territorio in Siraq e nemmeno l’ex “fiorente capitale” nell’area di Sirte in Libia, e i vari hotspot in altre regioni sembrano ancora meno organizzati nonostante godano di rapporti con la colonna centrale dell’organizzazione, anche questa comunque sfibrata dalle eliminazioni chirurgiche con cui le forze statunitensi hanno cercato di tagliare la testa ai baghdadisti. Ma il Califfato fondato da Abu Bakr al Baghdadi vive anche senza un territorio: perché, come scrive Domenico Quirico sulla Stampa, il “Califfato è un’idea che esiste, resiste e nuoce sotto varie forme”.

L’allarme americano ruotava attorno a questo, non pensiamolo sconfitto, non sentiamoci vincitori, spiegavano i comandanti e le intelligence americane. Le forme striscianti di quell’idea tenuta viva nella predicazione e nella propaganda si abbinano alle attività clandestine. Attorno a questo ruotava l’allarme più volte sollevato negli ultimi giorni sulle operazioni di evacuazione degli afghani in fuga dai Talebani. L’intelligence ne aveva certezza, dunque aveva raccolto informazioni: ci sarebbe stato un attentato, occorreva fare in fretta (da qui la fissazione di Washington sulla data del 31 agosto). Perché per i baghdadisti è necessario rendere fertile quell’idea, e allora quale migliore occasione di un’azione contro un bersaglio molle – civili innocenti ammassati in assembramenti caotici, spaventati e pronti a tutto pur di imbarcarsi in un volo della speranza. Azione da indirizzare per altro contro due nemici, i Talebani e gli Stati Uniti.

Il bilancio di quanto avvenuto all’aeroporto di Kabul ieri, giovedì 26 agosto, è pesantissimo. Sia sul piano delle vittime, quasi cento, con il doppio dei feriti. Sia sul piano tattico, con i baghdadisti che si dimostrano capaci di azioni organizzate in grande stile nonostante in quel punto caldissimo la sicurezza fosse garantita in non così stramba condivisione da forze armate occidentali (dentro al compound dello scalo) e dai nuovi padroni dell’Afghanistan, le unità talebane schierate lungo le strade oltre le mura. Schema già visto: gli americani hanno già usato i Talebani per bersagliare l’Is in Afghanistan.

Quel bilancio è pesantissimo anche sul piano politico: è successo ciò che non doveva succedere, l’evacuazione (momento di riqualificazione per Washington, che si impegnava a dare rifugio a chiunque volesse per rimediare al ritiro) non poteva essere macchiata dal sangue. Né quello di civili innocenti né tanto meno (viene da scrivere a questo punto “soprattutto”, se si considera il segmento di politica  interna americana in questa storia) da quello dei soldati statunitensi.

L’attentato a Kabul dà un effetto potenzialmente simbolico alla lotta jihadista delle Bandiere Nere. Li rinvigorisce: rassicura i miliziani, i proseliti, i fanatici. Crea spazio per il reclutamento – in altre aree calde, tra i sobborghi sensibili delle città multiculturali europei, o direttamente in Afghanistan, dove i Talebani sono tutt’altro che un corpo unico, e dove le defezioni potrebbero rinfoltire le cellule baghdadiste adesso che queste si sono dimostrate attive, resilienti, capaci di agire con la macabra potenza dell’atto terroristico, nonostante siano state combattute dalle forze occidentali tanto quanto dai Talebani.

Questi ultimi, più che gli eredi dell’Alleanza del Nord sanno di dover temere i baghdadsiti come opposizione interna, perché con loro sarà difficile scendere a compromessi. Almeno dal punto di vista ideologico: i Talebani sono considerati dissacratori del jihad perché non intendono proiettare il loro pensiero e i loro scopi al di fuori dell’Afghanistan, gli altri sognano una sorta di Califfato globale. Aspetto che apre al macro-tema di un’instabilità regionale generale, per una guerra civile combattuta in Afghanistan e che vede come potenziali protagonisti anche mujaheddin arrivati a sostenere la causa dai Paesi limitrofi. Poi c’è il punto di vista pragmatico, dove i due gruppi combattenti potrebbero trovare anche spazi di accomodamento; difficile fare previsioni per ora.

Quanto accaduto dà comunque coraggio, ispirazione, riferimento, vigore a tutti i gruppi collegati allo Stato islamico nel mondo. La provincia del Khorasan è stata forte, viva nella difficoltà, perché non possiamo esserlo anche noi?”, penseranno in Niger, o in Mozambico o in Bangladesh. I gruppi sono attivi, pronti. La minaccia crescerà, e l’Italia è Paese coinvolto in prima linea. D’altronde era stata scelta proprio Roma come palcoscenico per chiedere a tutte le forze della Coalizione internazionale anti-Is di non mollare. La riunione plenaria, co-presieduta dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio e dal segretario di Stato americano, Anthony Blinken, poneva particolare attenzione all’Africa, considerata la prossima terra di conquista dello Stato islamico.

Dal Nord della Nigeria fino alla Libia, dove nei giorni scorsi l’Is è tornato a rivendicare un attacco alle forze della Cirenaica, e il Sahel, come detto centro e snodo delle dinamiche terroristiche africane. A luglio lo Stato islamico dedicò una riflessione sulla propria rivista di punta, al Naba, sulla riunione e sulle attività della Coalizione. I termini propagandistici parlavano di vittoria e lotta continua. Ieri a Kabul i baghdadisti hanno voluto sottolineare capacità tecniche e comunicative, hanno voluto mettere in chiaro che la guerra è ancora aperta e che possono ancora dettarne in parte i tempi. La reazione sarà feroce, come promesso da Joe Biden. I controlli torneranno ad alzarsi, perché lo spirito di emulazione che può portare al gesto estremo qualsiasi fanatico in giro per il mondo è in fase di attivazione (col propulsore fornito dalla dimensione online della predicazione e dal racconto della cronaca).

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