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La questione del valore dei farmaci ha un aspetto ovvio e un paio controversi. Quello ovvio è il contributo alla salute offerto, tanto che non servirebbe aggiungere elementi di approfondimento: basti limitarsi a pensare ai vaccini, che rappresentano oggi l’unica opzione disponibile per uscire dalla pandemia di Covid-19. E non dimentichiamo altre storie esemplari, più o meno vicine: a puro titolo esemplificativo (e senza alcuna pretesa di esaustività), citiamo il caso recente dei farmaci che permetteranno di eradicare l’epatite C, e ancora prima quello dei farmaci che hanno permesso di cronicizzate l’Hiv. Ancora è, altresì, noto che con i nuovi farmaci biotecnologici si sono fatti passi avanti importantissimi nella sopravvivenza a molti tumori…

Il primo elemento controverso è quello del rapporto fra costo e benefici apportati dei farmaci: in letteratura si confrontano posizioni diverse; c’è chi ritiene che il prezzo dei farmaci sia assolutamente eccessivo rispetto ai benefici apportati (per qualcuno si configurerebbe persino una questione etica), come anche chi ritiene, invece, siano assolutamente proporzionali all’innovazione che contengono. Il secondo elemento controverso è quello relativo a quali siano i benefici apportati dal settore farmaceutico: non tanto sul versante della salute, quanto su quello dei ritorni economici. Ad esempio, le perdite di produttività sono reali costi per la società? L’occupazione e i redditi prodotti dall’industria farmaceutica che “valore sociale” hanno?

Il recente studio Value of Medicines in Ireland redatto dal WifOR è un esempio di valutazione, per molti versi paradigmatico delle criticità sopra sottolineate, con una applicazione ad un Paese europeo.

L’approccio adottato dello studio è quello di misurare il valore dei farmaci fondamentalmente sulla base della salute prodotta (anni di vita, e vita senza disabilità, guadagnati) e delle conseguenti riduzioni delle perdite di produttività. Non si approfondisce, invece, il tema dei benefici industriali che, di contro, sono presumibilmente un elemento chiave e strategico della questione. Intanto perché la capacità di tradurre le minori giornate di lavoro etc. perse in crescita economica è accademicamente dibattuta… al di là delle questioni metodologiche, non ci si può sottrarre a considerare che, empiricamente, in questa fase storica (e di sviluppo economico in Europa) i miglioramenti di salute non si traslano direttamente in crescita economica (almeno non con una acclarata evidenza).

Peraltro, se non si considerassero i benefici sul versante delle perdite di produttività, non è chiaro se si confermerebbero le conclusioni dello studio WifOR, che evidenzia un saldo positivo fra benefici e costi dei farmaci, considerando sia le vite salvate che i minori “costi indiretti”. Ne segue che l’indubbio “valore dei farmaci” deve fondarsi (anche) sulla integrazione degli aspetti di salute, con quelli di impatto diretto e indotto sull’economia del Paese.

Un elemento che, tra l’altro, guardando alle questioni nazionali, è di grande attualità, in previsione della formulazione del cosiddetto Recovery Fund: non dimentichiamo che i fondi che si renderanno disponibili, per due terzi, configurano una formulazione di debito, che si trasferirà sulle future generazioni; appare, quindi, doveroso attendersi che gli investimenti siano capaci di produrre un “rendimento”, non solo in termini di salute, bensì anche economico/finanziario: un rendimento sufficiente a permettere, in prospettiva, di ripagare il debito generato.

E questo è possibile solo aumentando l’efficienza del sistema assistenziale e/o attraverso la generazione di crescita sul versante industriale. Il momento è, quindi, topico, nel senso che è arrivato il momento di chiarire quale debba essere il ruolo atteso dal settore farmaceutico (e in generale delle cosiddette life sciences) nell’assetto produttivo italiano; e questo implica esplicitare il valore industriale della produzione nei settori legati alla salute.

Purtroppo, bisogna anche ricordare che la questione non è nuova, e configura l’ennesima “occasione persa” a livello Paese: se si fosse affrontata (e risolta) a tempo debito, oggi non si discuterebbe di come poter produrre vaccini in Italia, e ragionevolmente, avremmo potuto giocare un altro “ruolo” in una fase così delicata, anche da un punto di vista economico, come l’attuale.

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Il momento è propizio per chiarire quale debba essere il ruolo atteso dal settore farmaceutico nell’assetto produttivo italiano. E questo implica esplicitare il valore industriale della produzione nei settori legati alla salute. Il commento di Federico Spandonaro, docente di Economia sanitaria a Tor Vergata e presidente del Centro per la ricerca economica applicata in sanità

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