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L’assist era arrivato dal G7, quando in occasione di una delle recenti riunioni i leader dei sette paesi più industrializzati rilasciarono una dichiarazione comune in cui si impegnavano a promuovere una riforma delle norme internazionali allo scopo di garantire che le imprese multinazionali fossero tenute a pagare un’aliquota effettiva pari almeno al 15% sui loro profitti globali. Il gettito aggiuntivo rispetto a quello attuale sarebbe stato riscosso, almeno in parte, dai Paesi nei quali le grandi imprese realizzano il fatturato, anche se fossero prive – in quelle giurisdizioni – di stabili organizzazioni.

L’iniziativa non ha perso tempo. Dal Summit del G20 in corso nell’Arsenale di Venezia (Quale nell’arzanà de’ Viniziani/ bolle l’inverno la tenace pece a rimpalmare i legni lor non sani,/ ché navicar non ponno in quella vece) che può essere considerato il più antico opificio del mondo, vengono confermate le lusinghiere anticipazioni dei giorni scorsi. In una pausa dei lavori – a presidenza italiana – il Commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni con un messaggio su twitter si è dichiarato “Orgoglioso di partecipare a una giornata storica’’.

I ministri delle Finanze e Governatori del G20, infatti, sarebbero prossimi all’accordo sulla proposta di tassazione delle multinazionali, articolata in un’aliquota minima al 15% e un meccanismo di ripartizione degli utili fra i Paesi. È senza dubbio un segno interessante che si cominci a pensare ad un minimo di fiscalità comune in un blocco di Paesi Membri del G20 che rappresentano circa il 90% del PIL mondiale, l’80% del commercio mondiale, il 66% della popolazione mondiale e l’84% delle emissioni di gas serra derivanti dall’uso di fonti fossili di energia. Ma in materia fiscale non “basta la parola”.

Ci sono aspetti importanti da chiarire. In un editoriale pubblicato sul sito dell’Istituto Bruno Leoni (IBL) vennero sottolineate, dopo l’intesa preliminare del G7, almeno tre questioni concrete che consentirebbero di valutare l’esito della manovra. La prima è la determinazione delle base imponibili. Tutto dipende da come viene calcolato il reddito su cui l’aliquota si applica. Già da tempo, la concorrenza fiscale tra paesi si gioca molto più su questo fronte che sul ribasso delle aliquote nominali: quindi, le conseguenze concrete dell’accordo dipendono – prosegue Ibl – quasi interamente da se e come si interverrà su questo aspetto. Altrimenti il dumping fiscale potrebbe uscire dalla porta e rientrare dalla finestra. Inoltre una minimum tax al 15% lascia comunque dei margini di concorrenza, tra i sistemi che sono in grado di limitarsi a quel livello e gli altri che si vedono costretti ad aumentare l’aliquota in conseguenza del loro equilibrio tra entrate e uscite. Il secondo tema riguarda le misure “transitorie” adottate in molte giurisdizioni per contrastare il “profit shifting” delle multinazionali, specie in campo digitale. È il caso della web tax italiana e dei provvedimenti analoghi in altri Stati europei. L’accordo prevederà l’eliminazione di questi balzelli? È una domanda cruciale dalla quale è attesa una risposta.

Infine, bisogna chiedersi se e quali cambiamenti un eventuale accordo imprimerà sul disegno complessivo dei sistemi tributari. Oggi l’aliquota media sul reddito d’impresa nei paesi Ocse è del 24%. Nelle giurisdizioni a più bassa tassazione, come l’Irlanda, l’aliquota è del 12,5 %, quindi non molto distante dal 15. Negli Stati Uniti, il presidente Joe Biden vorrebbe alzarla dal 21 al 28%: si tratterebbe di un intervento in assoluta controtendenza, visto che dagli anni Ottanta le imposte sul reddito d’impresa sono continuamente calate. Per esempio, in Italia – ricorda Ibl – si è passati dal 32,5 % dei primi anni 2000 all’attuale 24 %. Questo è stato principalmente conseguenza della deprecata concorrenza fiscale: ma, all’atto pratico, ha favorito anzitutto le piccole e medie imprese italiane che, per la loro dimensione o i loro settori merceologici, non hanno la possibilità di delocalizzare.

Arriviamo così alla conclusione: il compromesso del G7 finirà per attenuare, o eliminare, i vincoli che finora hanno limitato la voracità fiscale degli Stati? Altrimenti, si tratterà, forse, di un’opportunità per fare ordine nel sistema tributario internazionale. L’Ibl non ha nascosto il timore che, col pretesto di far pagare le tasse alle perfide multinazionali, si arrivi, alla fine, a mandare il conto soprattutto alle pmi.

Anche Franco Debenedetti, con un articolo su Il Sole 24 Ore, è intervenuto sulla minimum tax, a ridosso del G7, facendo notare che con la tassa globale mondiale le imprese non avrebbero più alcun vantaggio a giocare sui prezzi di trasferimento tra proprie filiali per formare l’utile in un Paese con un regime di tassazione favorevole, come Olanda, Irlanda, Lussemburgo. Se devono pagare comunque il 21% (o il 15%) anche sugli utili parcheggiati nei pochi autentici paradisi fiscali rimasti, tipo le Cayman, le grandi multinazionali americane potrebbero preferire di rimpatriarli pagando il 28% (che potrebbe diventare il 25%). Però, secondo Debenedetti si sono alcuni caveat da non sottovalutare. Innanzitutto perché prendere di mira solo la multinazionali del Big Tech e non anche quelle di altri settori?

Inoltre, ogni riduzione della concorrenza ha effetti negativi sull’efficienza e la produttività, e questo vale anche per la concorrenza fiscale. Se un Paese – sostiene Debenedetti – ha una pubblica amministrazione efficiente, e offre vantaggi a investimenti stranieri, perché non deve poterlo fare? Il peso della fiscalità non deve essere considerato comunque come un artificio scorretto per attirare investitori. Potrebbe essere anche la conseguenza di un sistema Paese dotato di un’organizzazione amministrativa, economica e sociale in grado di assicurare servizi di qualità a costi inferiori. Se è considerato lecito valorizzare – si chiede Debenedetti – le proprie bellezze naturali e artistiche spiagge e musei, perché non si può farlo con una tassazione favorevole a imprese innovative? In parole povere: bisogna saper distinguere tra i “paradisi fiscali” e i paesi che si possono permettere una tassazione bassa perché hanno i conti in equilibrio.

Inoltre, non si deve dimenticare che per molti Paesi in via di sviluppo o emergenti i dumping fiscale o sociale è un modo – che nella loro storia hanno usato prima o poi tutte le nazioni – per competere con economie più forti. Nessuno penserebbe, ad esempio, di decidere un salario minimo legale uniforme in tutti i Paesi del G20. Lo stesso discorso potrebbe valere per altri input economici. Pertanto le “perfide” multinazionali potrebbero comunque trovare dei vantaggi ad investire dove vi sia maggiore convenienza. Attenzione, dunque, a non pretendere che lo stesso paio di calzoni sia indossato da persone con taglie diverse. In sostanza – ci sentiamo di concludere – è necessario individuare con equilibrio l’introduzione di una minimum tax, per evitare di agevolare, nei fatti, le economie meno competitive. Dopo le crisi finanziaria del 2008-2009 a livello delle istituzioni internazionali si pensò di adottare regole comuni per i mercati finanziari; poi non se ne fece nulla. Speriamo – lo ha confermato anche Janet Yellen – che questa volta vi sia maggiore fortuna. Molto dipende però dal fare i passi secondo quanto ci permettono le gambe.

Minimum tax, non basta la parola. La versione di Cazzola

È senza dubbio un segno interessante che si cominci a pensare ad un minimo di fiscalità comune in un blocco di Paesi Membri del G20. Ma attenzione a non pretendere che lo stesso paio di calzoni sia indossato da persone con taglie diverse. In sostanza, è necessario individuare con equilibrio l’introduzione di una minimum tax, per evitare di agevolare, nei fatti, le economie meno competitive

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