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Si revoca la Laurea Honoris Causa a Mikhail Gorbaciov”. È il 22 Settembre 1993.  A dare l’annuncio, visibilmente contrariato, è Fabio Roversi Monaco, storico Rettore dell’Università di Bologna nell’Aula Magna strapiena che attende invano da più di due ore l’ex-leader sovietico per il prestigioso riconoscimento. Si è appena appreso che tarda perché si è fermato nel modenese per fare pubblicità ad un mobilificio della zona.

Ad aggravare la beffa ironica dell’episodio vi è il luogo non casuale della gaffe. Il capoluogo emiliano è noto per avere l’ateneo più antico al mondo ma anche per essere stato l’avamposto del Partito comunista in Italia e averne guidato la svolta epocale della Bolognina nel 1989.

L’assenza per un mero motivo venale di Gorbaciov dalla cerimonia nell’Ateneo risuonò come fragoroso schiaffo politico alla città occidentale che più di tutte aveva dialogato con l’Urss, in parte per convinzione, in parte per spirito di appartenenza al PCI.

Non si ha memoria ad oggi di simili onte nella storia dell’Alma Mater (che tra i personaggi politici premiati ha gente del calibro di Francois Mitterrand, Alexander Dubcek, Nelson Mandela, Giorgio Napolitano, Madre Teresa – fino allo stesso Mario Draghi).

Può sembrare irriguardoso rispolverare questo episodio in occasione del 90simo compleanno di Gorbaciov, proprio mentre le cronache lo celebrano, con la stanca monotonia degli anniversari, per il ruolo ricoperto nella fine dell’“Impero del Male” (secondo la famosa definizione di Ronald Reagan nel 1983).

Non si trae un giudizio storico da un singolo aneddoto, per quanto ben documentato, e tuttavia l’incidente è interessante non tanto per quello che dice della persona quanto del periodo in cui si svolge. Ovvero i primi anni ‘90, dominati dalla confusione dell’agonia post-sovietica e dai risvolti (a volte comici) di conseguenze nel complesso tragiche dell’improvvisa fine dell’Urss.

Sul piano interno, fu un tracollo verticale di simboli, istituzioni, valori e personaggi di riferimento che lasciò spiazzati centinaia di milioni di persone abbandonate ad un processo di de-istituzionalizzazione devastante.

Oggi è difficile trasmettere a pieno quella sensazione di decadenza politica e morale che scatenò in molti il vedere in breve tempo il leader del Cremlino passare dal dirigere il Comitato Centrale del Pcus a fare la pubblicità a borse e divani.

Sul piano internazionale, le conseguenze furono anche peggiori, con un crollo dell’equilibrio bipolare mondiale che colse di sorpresa forse più l’Occidente che la Russia stessa.

Ad esso si deve la stagione delle difficili democratizzazioni dei paesi dell’ex-Patto di Varsavia, ma anche (e più il tempo passa più diventa chiaro) quel tipo di sanguinosa disgregazione dei Balcani Occidentali.

Alla luce di questo, non è difficile comprendere perché la popolarità di Gorbaciov nei decenni sia rimasta più alta in Occidente che in madrepatria. Se la sua figura, come quella di Eduard Shevardnadze, è stata santificata ad Ovest, ad Est è stata volentieri oggetto di critiche sconfinate nell’aperto sarcasmo.

Alcuni ne hanno esaltato il ruolo di artefice della fine della guerra fredda; altri lo hanno considerato il debole ed opportunista curatore fallimentare di un impero a tutto vantaggio dei vecchi nemici. Entrambi gli orientamenti sono eccessivi e vanno ridimensionati; insieme anche alla portata del ruolo storico dello stesso Gorbaciov nel decretare l’apertura prima e la fine poi dell’Urss.

Con il paese afflitto da un’irreversibile mostruosa crisi economica, essa forse sarebbe comunque arrivata, chiunque vi si trovasse al comando. Lo dimostra il trascinarsi dei problemi strutturali sovietici nella Russia della presidenza di Boris Eltsin, aggravati da una crisi della catena di comando costituzionale, orfana del vecchio verticismo del Partito di Stato.

Parlare oggi di Gorbaciov, oltre a destare curiosità verso uno dei pochi veri leader del secolo scorso ancora in vita (come Henry Kissinger), serve piuttosto per comprendere meglio i pilastri su cui ha poggiato il consenso di Vladimir Putin negli ultimi due decenni.

Che non è soltanto riconducibile, come molti pensano, al ferreo binomio autorità + carisma.Troppo spesso ci si dimentica del difficile esordio di Putin quando si trovò a gestire un paese socialmente a pezzi, un settore pubblico-economico pachidermico al collasso, lanciato senza paracadute in un liberismo senza freni teorici né pratici dagli esiti catastrofici.

La quotidianità̀ dell’epoca era marcata da povertà assoluta, servizi pubblici nulli, criminalità violenta ed impavida, micro-corruzione diffusa, degrado urbano, scarsa credibilità̀ dell’autorità̀ costituita, prevaricazioni di ogni tipo in nome della logica della legge del più forte.

Alla ricerca di un reale consenso politico nel paese, Putin ha sul piano interno lavorato su questi problemi a vantaggio della classe medio-bassa dell’enorme para-Stato, ridandole prestigio sociale dopo le umiliazioni sofferte nel decennio precedente.

Nel contesto internazionale, ha fatto di tutto per riprendere quel ruolo da super-potenza che Mosca ritiene che le spetti. In altre parole, è riuscito là dove i suoi predecessori hanno fallito l’obiettivo.

Con l’aggravante, nel caso di Eltsin, di un frettoloso smantellamento dell’enorme spazio dell’Urss e indipendenze concesse a paesi che – con il senno di poi – il Cremlino avrebbe volentieri mantenuto sotto controllo diretto.

Fu una scelta politica all’epoca presa anche per accelerare l’uscita di scena di Gorbaciov, oramai rimasto ultimo guardiano dell’integrità territoriale dello spazio sovietico. Per paradosso è quello che resta di questa immagine ad averne oggi decretato una riabilitazione nell’ufficiale storiografia positivista di Mosca. Che gli ha perdonato molti degli errori del passato. Eccetto forse la pubblicità per Pizza Hut.

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