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Nella previsione di una valanga di lavori pubblici da realizzare grazie alla manna del Next Generation EU, si è aperto un dibattito sul fenomeno noto come “paura di firmare”, fenomeno che sembra essere una delle cause della lentezza nella realizzazione di opere pubbliche. Per arginare questo fenomeno viene da alcuni proposto di rendere difficile il ricorso da parte della magistratura al  reato di “abuso di ufficio”, reato che aveva sostituito quello di “interesse privato in atto d’ufficio” ritenuto a suo tempo  causa di disfunzioni varie.

Che alla base del terror firmae ci sia un atteggiamento inquisitorio della magistratura ordinaria e di quella contabile è molto probabile. Ricordo ancora vari anni fa un convegno organizzato dall’Andigel (Associazione nazionale direttori generali enti locali) al Cerisdi di Palermo nel corso del quale padre Pintacuda accusò chiaramente la magistratura di bloccare la macchina amministrativa per l’azione di terrorismo praticata nei confronti della dirigenza degli enti pubblici.

Tutto vero. Qui vorrei tentare di richiamare l’attenzione sulla probabilità che il terror firmae e l’aggressività della magistratura ordinaria e di quella contabile possano essere resi possibili da alcune caratteristiche del modello amministrativo italiano, in particolare dalla concezione della figura di dirigente e dai meccanismi di controllo.

Nelle amministrazioni proceduralizzate il dirigente non è un esperto nelle problematiche del settore di cui è a capo ma è un coordinatore di varie competenze articolate in più persone e uffici. Spesso il dirigente, in un modello di questo tipo, non è chiamato a firmare atti a valenza esterna (quali possono essere verbali di aggiudicazione) e, in generale, appone poche firme. L’atto da realizzare viene concepito come il risultato di una serie di attività concatenate (secondo la logica di una scala fini/mezzi, dove ogni gradino della scala rappresenta l’obiettivo dell’azione relativa al gradino precedente e lo strumento per realizzare l’azione del gradino seguente) ognuna delle quali è il risultato dell’operazione di un attore ben definito il cui ambito di discrezionalità è rigidamente ristretto dalla norma del processo e da competenze professionali.

Il solo concepire un’azione deviante diventa molto difficile in una macchina di questo tipo.  Ad ogni tappa del processo, il responsabile appone una firma. Si badi bene che il valore di questa firma è molto diverso dal valore di una firma apposta oggi da un dirigente dell’amministrazione italiana. Mentre la firma che viene apposta oggi ha un valore autorizzativo, la firma apposta dal funzionario di una macchina basata sui processi ha il valore esclusivo di assunzione di responsabilità. Le svariate firme apposte lungo tutto il processo, non solo sono garanzia assoluta di trasparenza,  ma rendono di fatto impossibile qualunque deriva, in quanto attestano il rispetto di un percorso logico-professionale inflessibile e precodificato.

Per uscire dal blocco in cui la nostra amministrazione si trova, più che affievolire le sanzioni bisogna rendere minimo l’ambito di discrezionalità del funzionario, codificando il processo in maniera ineludibile.

Codificare il processo significa innanzi tutto definire in maniera chiara ed inequivocabile quale debba essere il risultato del processo, significa cioè definire il prodotto, l’output.  Si tratta di passare da una normativa che si rifà al modello “chi ha autorità/potere di decidere su cosa” ad una normativa che si ispiri al modello “quando bisogna fare cosa, come e chi lo deve fare”.

A questo proposito vanno fatte due considerazioni, una di tipo generale ed una relativa ai lavori pubblici.

Da un punto di vista generale va ricordato che negli anni ‘90 la nostra amministrazione si era incamminata su questo percorso. Il Dlgs 286 del 1999 (derivato dalla legge 59 del 1997, la così detta Bassanini 1) prevede al comma 4 dell’art 1 lettera d che ogni amministrazione definisca i prodotti che è chiamata a realizzare e, alla lettera f, stabilisce che per ogni prodotto vengano individuati degli indicatori e che ci si diano degli obiettivi. Orbene quante sono le pubbliche amministrazioni che hanno dato seguito a questo obbligo normativo? Pochissime. Quanti sono i siti delle svariate migliaia di amministrazioni che presentano l’elenco dei loro prodotti, definendoli anche in chiave di indicatori? Poche decine.

Dal punto di vista del prodotto “lavoro pubblico” vanno fatte due ulteriori considerazioni. Da una parte il nostro codice degli appalti è un groviglio talmente aggrovigliato di norme ispirate al modello “chi ha potere/autorità di decidere su cosa” che non è di fatto possibile passare ad una logica di processo. Su Italia Oggi del 19 febbraio scorso, Alessandra Ricciardi argomentava in maniera inequivocabile che il nostro codice degli appalti è degradato al punto da non poter essere risistemato in tempo utile per il Next Generation EU. Il codice va semplicemente sospeso e, in attesa di produrne uno radicalmente nuovo basato sulla logica del processo (operazione lunga e laboriosa), dare esecuzione diretta alle direttive Ue che sono molto più chiare del nostro codice e delle linee guida nel frattempo emanate dell’Anac, linee guida che si sovrappongono al codice introducendo un elemento di ambiguità relativamente alla posizione nella gerarchia delle norme di queste linee guida.

Da un’altra parte vanno create le condizioni per avere un prodotto chiaro e inequivocabile. Questo significa avere un capitolato che non lasci spazi alla interpretazione. Questo significa creare dei tecnici in grado di produrre questi capitolati. L’operazione è lunga e non abbiamo nemmeno i possibili formatori. Dovremmo fare appello ai nostri partner europei affinché ci affianchino a mettere in piedi dei centri dove formare adeguatamente tecnici in grado di produrre capitolati che non richiedano continue variazioni in corso d’opera. Il capitolato vago e generale rende indispensabile la figura del direttore dei lavori (figura inesistente in Germania e nei paesi di diritto germanico e nel mondo anglosassone), funzionario della stazione appaltante chiamato a riempire i buchi lasciati aperti dai capitolati vaghi e imprecisi, dando luogo a situazioni di incertezza dove tutto può svilupparsi.

Un’ultima considerazione va fatta sui controlli. Nel modello attualmente in vigore nella nostra amministratore il controllo avviene ex ante al momento in cui il dirigente appone la firma che dovrebbe dare il via alla catena di operazioni concrete. Nel modello per processi il controllo avviene sopra tutto in itinere e ex posto. Anche qui abbiamo bisogno di tecnici in grado di fare i controlli, tecnici che non devono appartenere alla stazione appaltante (come nel caso del direttore dei lavori) ma ad un corpo di professionisti appositamente preparati. Anche qui dovremmo fare appello ai nostri partner europei per farci affiancare per formare questi tecnici.

Anziché trastullarci con dibattiti sull’opportunità di affievolire l’abuso di ufficio, dovremmo impegnarci nel riscrivere ab imis il codice degli appalti e a creare centri atti a formare tecnici in grado di stendere capitali d’appalto chiari e ispettori competenti. Un detto orientale dice: il miglior giorno per iniziare a fare le cose importanti è venti anni fa; il secondo miglior giorno è oggi.

Il timor di firma e l'abuso di ufficio. Il punto di Balducci

Il fenomeno noto come la “paura di firmare” sembra essere una delle cause della lentezza nella realizzazione di opere pubbliche. Per uscire dal blocco, più che affievolire le sanzioni bisogna rendere minimo l’ambito di discrezionalità del funzionario, codificando il processo in maniera ineludibile

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