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Lo scontro tra Big Tech e il governo australiano sembra essersi risolto. Tornando sui suoi passi, Facebook ha accettato di sottostare alle condizioni che saranno presto imposte dal governo australiano, impegnandosi a pagare le notizie rese disponibili sulle proprie piattaforme.

Il rivoluzionario disegno di legge australiano, approvato dalla Camera e al vaglio del Senato, imporrà alle aziende tecnologiche di accordarsi con i gruppi editoriali per pagare l’accesso ai loro contenuti e la loro disseminazione attraverso le piattaforme digitali. In caso di mancato accordo è previsto l’intervento di un arbitro esterno per stabilire il compenso più equo, che tenderà senza dubbio a favorire l’editoria.

La vicenda è stata sofferta. Facebook e Google di fatto detengono il monopolio del mercato pubblicitario digitale in Australia, vendono gli spazi pubblicitari ai media online e fungono anche da portali di accesso per i contenuti. Entrambi avevano minacciato di tagliare i ponti con l’editoria australiana e impedire la condivisione dei loro contenuti sulle rispettive piattaforme, se il disegno di legge non fosse stato modificato a loro favore.

Al niet di Canberra, settimana scorsa, Google ha ceduto. Facebook, invece, ha concretizzato la sua minaccia e rimosso tutti i contenuti dei media australiani dalle proprie piattaforme. La mossa a sorpresa, giudicata una tattica di negoziazione aggressiva da molti analisti, ha anche impattato certe comunicazioni di emergenza, commerciali e governative, provocando un’esplosione di frustrazione pubblica e attirandosi il biasimo di politici ed editori.

Lo stallo si è risolto solo oggi, quando Facebook ha dichiarato di aver raggiunto un accordo col governo australiano e aver strappato qualche concessione e garanzia in più, come un periodo di due mesi tra il fallimento dei negoziati e il ricorso al sistema di arbitraggio, che sarà considerato l’ultima spiaggia. Il colosso californiano sostiene che sceglierà quali editori compensare e si è anche riservato il diritto di reimporre il suo ban editoriale. Secondo il Financial Times, le modifiche concedono più spazio di manovra ai colossi tech per evitare gli aspetti più stringenti del disegno di legge.

Con ogni probabilità, l’evento segna una svolta epocale nella storia dell’editoria, che più di molte altre industrie ha patito la diffusione endemica delle piattaforme digitali e il declino dei proventi pubblicitari (alla BBC hanno stimato che il giornalismo abbia perso tre quarti degli introiti negli ultimi quindici anni).

Il Canada e l’Unione europea, entrambe vicinissime all’approvazione di leggi simili, faranno tesoro di questo precedente. Ed è ragionevole aspettarsi che il resto del mondo segua a ruota. Anche multinazionali tecnologiche del calibro di Microsoft – che, a onor del vero, hanno molto di meno da perdere sul fronte dei contenuti digitali rispetto alla concorrenza – hanno iniziato a spingere per riequilibrare il ruolo di Big Tech nel tessuto economico odierno.

“Dopo gli anni del ‘Far West’ digitale, voluti e serviti a far pienamente decollare la Digital Economy, in generale dovrebbe valere il principio che adesso occorre andare nella direzione di accordi internazionali sulla governance di Internet, per renderla al servizio dei cittadini e di tutte le imprese di mercato e non il contrario”, ha scritto su queste colonne Rosario Cerra, presidente del Centro Economia Digitale.

Secondo l’esperto, l’Ue “può e deve” assumersi il ruolo di leader globale, utilizzando la sua potenza di fuoco per costringere le aziende Big Tech (nell’editoria come altrove, aggiungeremmo) a prendersi la responsabilità dello strapotere che hanno accumulato. Il Digital Service Act e il Digital Markets Act, le suite di leggi europee al vaglio di Bruxelles e già ampiamente dissezionate da Formiche.net, vanno esattamente in questa direzione.

“Il passaggio dal Far West digitale alla Economia digitale liberale non sarà un pranzo di gala, ma è proprio nell’applicazione dei principi della cultura liberale che si troveranno le risposte”, ha concluso Cerra. E l’esempio più significativo è appena diventato realtà in Australia.

Facebook logo

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